Il 24 maggio, i clericalismi odiosi e paralleli, i Dioscuri e il mio avo che combatté romanamente

Alessandro Giuli

    Il centenario del 24 maggio è passato in cavalleria fra opposti e paralleli clericalismi per me tutti odiosi. La chiesa catto-destrorsa ha ripescato dalla memoria un armamentario celebrativo che aveva abbandonato più o meno dal 1943, quando da fascista per necessità si fece badogliana per convenienza e poi rancorosa per diritto acquisito. I missini, tranne rari casi, non hanno mai omaggiato la Dea Vittoria, le hanno sempre preferito l’oscurità foss’anche eroica, ma pur sempre buia, delle ridotte repubblichine. L’altra chiesa, quella clerico-progressista, continua a cianciare la lingua della “inutile strage” perché al fondo rimpiange Cecco Beppe e Mastro Titta oppure don Bosco ed è degnamente accompagnata dagli apolidi (cioè sradicati) d’ogni ordine e grado. Io di mio sono “Per la più grande Italia”con Gabriele D’Annunzio, Arturo Reghini e Giacomo Boni, ma non posso negare d’aver subìto in passato qualche influenza evoliana anti risorgimentale e scettica sulle meccaniche (non certo sugli obiettivi) dell’Unità e della Grande guerra. Con gli anni poi uno si libera dell’inessenziale. Può farlo attraverso buoni esempi e altrettanto buone letture. Buoni esempi, invero, mi erano giunti dalla nonna materna, Marcella Viola Linguerri, già quando ero bambino. Fu lei, nel 1982, in occasione dei Mondiali di calcio vinti dall’Italia, a mettermi tra le mani il tricolore con lo stemma sabaudo cucito dalle donne di casa nel 1918: sta’ attento però mentre lo sventoli – mi disse – perché ci sono ancora molti nemici della monarchia in circolazione.

     

    Oggi mi sorprendo ogni tanto a canticchiare distratto alcuni stornelli truculenti imparati in età post adolescenziale: “Vogliamo scolpire una lapide / incisa su pelle di troia / a morte la casa Savoia…”, ma questa è un’altra storia di famiglia, la storia patrilineare gentilizia, e comunque quella bandiera di mia nonna Marcella è conservata con amore fra i Lari domestici.

     

    Tornando sul Piave: da anni conosco e leggo lo storico tradizionalista Sandro Consolato, autore della formula più bella e potente circa la Prima guerra mondiale come “Grande Guerra Romana”, rinvio ai suoi studi chiunque voglia approfondire la questione. Mi limito a ricordare, anzi a ripetere che la Vittoria italiana fu anche propiziata dall’azione di un cenacolo magico riunito intorno alla presenza etrusca di Ekatlos – l’eroe con l’aratro raffigurato su numerose urne cinerarie tirreniche (guglàte pure, se volete, poi quando sarà il momento vi parlerò d’altro, rileggeremo Polibio, parleremo della statua di Roma-Minerva che come il Palladio sorveglia l’Altare della Patria e di certi articoli esoterici apparsi sul Popolo d’Italia durante il conflitto bellico…) – e posto, il cenacolo magico, sotto la custodia dei Dioscuri, i divini Gemelli, Cavalieri armati di Roma. A proposito di cavalieri, ce n’è uno a casa mia che riempie con la sua immagine una cornice enorme con dentro un piccolo tricolore insanguinato. Ha la divisa dei Dioscuri ed è tale e quale a mio fratello quand’era ragazzino; lo stesso broncio fiero e generoso, tutto istinto e bontà. Io e Valeria lo chiamiamo “l’Avo” anche se in effetti non ebbe discendenza, era il fratello di mia nonna paterna, Ida Savelli Giuli, il sangue sul piccolo fazzoletto tricolore è il suo: si è sacrificato giovane per la Patria antica, come recita il biglietto che i suoi ufficiali hanno fatto stampare per lui: “Guglielmo Benvenuto Savelli / Soldato del ‘Piemonte Reale Cavalleria’ / Colpito da granata nemica / il 18 aprile 1917 / mentre romanamente combatteva / per la conquista di quota 144 a Monfalcone / Veniva trasportato / all’ospedale militare di Bologna / ove attendeva stoicamente / fra atroci sofferenze la morte / che lo rapiva ai suoi cari e alla Patria / il 13 maggio 1917”. E infine: “Ebbe un solo rimpianto / quello di non veder compiuti i destini d’Italia”. Di Guglielmo, che combatté romanamente, soffrì stoicamente e morì da italiano (nel delirio degli ultimi istanti, si strappò le bende e vinse il dolore), conservo anche il diploma commemorativo del ministero della Guerra. E conservo il suo anello di ferro: aveva fatto in tempo a ricavarlo da un frammento di quella granata fatale, aveva fatto in tempo a farci incidere sopra le sue iniziali. Non so se abbia anche fatto in tempo a indossarlo. So che non si è sacrificato invano.