Da Mattarella a mio fratello, consigli antichi per non diventare spergiuri (tranne in amore)

Alessandro Giuli

Giurare stanca, forse, e un po’ ha stancato.

Giurare stanca, forse, e un po’ ha stancato. Giurano tutti, dal nuovo presidente della Repubblica (oggi, e che Quirino lo guidi) a mio fratello che dice sempre “teloggiuro ieri siamo stati benissimo!” oppure “maddai ggiura!” e io mi ci arrabbio perché penso che il giuramento sia una cosa molto seria e non si dovrebbe mai giurare se non in casi eccezionalissimi. Ormai va così. Tra il presidente della Repubblica e mio fratello poi ci sono le Forze armate e le altre cariche istituzionali, quelle intermedie, ministri e sottosegretari per esempio. Giurano tutti sulla Costituzione del 1948, ma chiunque occupi un posto pubblico stringe un patto formale con la comunità dei cittadini, si impegna a onorare alcune promesse in cambio del voto ricevuto, per esempio non rubare, non vendersi, non sfruttare la propria funzione per interessi privati, non tradire; e in un certo senso anche questo è un giuramento sia pure privo di una formula solenne.

 

Guai a giurare con leggerezza. Perfino agli Dei, e perfino al padre degli Dei, Giove Ottimo Massimo, tremano i polsi quando si tratta di giurare sullo Stige, il fiume infernale la cui acqua viene raccolta in un otre dalla solerte Iride (la Dea dell’arcobaleno che collega il cielo alla terra e giù giù fino al Tartaro) in modo che possa partecipare come testimone al giuramento, rendendolo irrevocabile al punto tale che il nume spergiuro viene colpito da una catalessi di nove anni e per altri nove anni è bandito dai banchetti celesti del monte Olimpo. Giove è appunto il primo custode dei giuramenti, come ci ricorda Omero nell’Iliade quando mette in bocca queste parole ad Agamennone chiamato a presiedere il giuramento su cui è basato il duello tra Menelao e Paride, risolti a contendersi così la bella Elena di Sparta per risparmiare strage di Achei e Troiani (le cose andranno diversamente, come si sa): “Giove Padre, signore dell’Ida, gloriosissimo, massimo, Sole che tutto vedi e tutto ascolti, e Fiumi, e Terra, e voi due che di sotterra i morti punite, chi trasgredì giuramenti, siate voi testimoni, serbate il patto leale!”. Eccetera.

 

Gli antichi romani, per i quali il retto agire (fas) è anzitutto il giusto (ius), e cioè la fonte e l’essenza del diritto, sia nei patti diciamo così internazionali sia nelle questioni interne, chiamano il giuramento ius iurandum e lo pongono in collegamento con Giove e con la sua pietra scintillante di fuoco, la selce. Giurano infatti per Iovem lapidem e usano una formula rituale molto arcaica e severissima (vetustissimo ritu): se ingannerò deliberatamente, cioè se divento spergiuro, allora Giove Padre non infierisca contro Roma e il Campidoglio ma cacci via me, lontano dai giusti, così come io adesso scaglio via questa selce. Da qui forse nasce un sistema di comportamenti pubblici e privati basato sul timore del sacro. Il greco Polibio, che scrive in età repubblicana e quindi assai prima della decadenza dei costumi antichi, ammira in modo speciale l’onestà dei romani nell’amministrazione della giustizia e dei denari pubblici e la fa discendere dal rispetto per la parola data nel giuramento. Anche Tito Livio, contemporaneo di Augusto, ci ricorda che per i romani è impossibile ritornare alla monarchia poiché la Repubblica è garantita da un giuramento collettivo imposto da Giunio Bruto alla cittadinanza dopo la cacciata dell’ultimo re Tarquinio (una specie di proto-norma costituzionale transitoria anti Savoia). E’ Cicerone, che ad Augusto non sopravvisse, a sintetizzare il senso dei romani per il giuramento: “Gli antenati vollero che nessun vincolo per mantenere fedeltà alla parola data fosse più saldo del giuramento”. Quando parla di fedeltà, Cicerone utilizza la parola fides, e nel lessico antico Fides non è la fede dei moderni ma è una divinità di fronte alla quale, dai tempi del secondo re Numa Pompilio, i cittadini giurano e risolvono le loro controversie giudiziarie. E gli spergiuri? Non vengono esclusi per nove anni dai banchetti, perché questo è un trattamento d’eccezione per le divinità: secondo le XII Tavole il giudice corrotto e lo spergiuro in atti giudiziari possono essere gettati dalla Rupe Tarpea. 

 

Non so se sia il caso di rimpiangere la Rupe Tarpea, però sarebbe interessante giurare meno, tutti quanti, e giurare meglio quando è necessario farlo, sapendo che il venire meno alla parola giurata somiglia parecchio all’empietà, cioè al non essere pii (la pietà, cito ancora Cicerone, è in effetti il giusto agire nei confronti del divino). Ma immagino che questo non possa accadere fintantoché la sfera pubblica non verrà riconsacrata. Come in antico, quando la Repubblica (res publica) era una cosa più che umana (res sacra). Non sto pensando alla nascita di un culto statolatrico sul tipo della laïcité giacobina, né a una religione civile in senso paramassonico, ma a un po’ più di educazione civica sì. Riconsiderare l’importanza del giuramento, per non svilirlo abusandone o trascurando il disonore che cade sugli spergiuri, è già un buon inizio e non mi rivolgo soltanto a mio fratello e ai suoi “teloggiuro!”. Comincerei così e sarei tentato di estendere questa cautela anche alle questioni di cuore, ma so bene, e non soltanto perché ho letto Callimaco, che “i giuramenti d’amore non arrivano alle orecchie degli Dei immortali”. Sono scritti sull’acqua.

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