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Contro mastro ciliegia

La pippobaudizzazione del Leoncavallo

Maurizio Crippa

Lacrime social, retromania militante e mitologie consolatorie per un luogo che da decenni non era più rivoluzione. Lo sgombero del Leonka come rito funebre pop per una sinistra che si commuove su se stessa, versione Pippo Baudo

Pagato il dazio della critica alla stupidità dello sgombero Piantedosi-Salvini, inutile e fuori tempo massimo; pagato il dazio della critica al governo: Meloni rendesse franca quella bolgia di CasaPound, piuttosto, si può passare a qualche considerazione su tutto il contorno di baraccone e pueblo unido che ha accompagnato lo sgombero grottesco del Leonka. Il racconto del grande scandalo civile, dell’indignato come eravamo della rivoluzione; le foto color nostalgia manco fossero interviste a Jerry Calà; l’epoca epica dei concerti; la Milano che c’erano ancora le fabbriche, maledetta globalisasiùn  (in realtà il 18 ottobre 1975 i “militanti extraparlamentari” occuparono in via Leoncavallo un’area industriale già bella che dismessa). Mancano solo i Navigli quando c’era la nebbia. Ognuno il suo ricordo, la sua ribellione o lacrimuccia strizzata in un post per quella che si potrebbe tranquillamente definire, se Michele Masneri consente, la pippobaudizzazione del Leonka. La sublimazione in mito dalla consistenza incerta di un luogo, un collettivo o collettore di esperienze e politiche, di una storia certo. Ma che in quella forma “alternativa” da tempo non esiste più. Come la Milano del “movimento”, come la Dc di Baudo di cui non s’è capito perché dovremmo sentire la mancanza. 


Perché, dove? E soprattutto: mancanza di cosa? Nato cinquant’anni fa, tragicamente segnato tre anni dopo, 18 marzo 1978, dall’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, fatte salve tutte le benemerenze e attività sociali, il Leonka non è più da decenni la parte antagonista (ça va sans dire migliore) della città. Non è la parte sana per il tutto marcio, è una parte semmai nel tutto. Il resto è pippobaudismo di sinistra. Mitologia. Omar Pedrini: “C’era sempre un palco per tutti, ora Milano è più povera”. Anche se a Milano ormai si fa musica ovunque. Sandrone Dazieri: “La perdita di una realtà importantissima… dove ognuno aveva la possibilità di esprimersi liberamente”. Non proprio tutti, ma vabbè. Paolo Rossi: “La cultura popolare a Milano sta volando via. Se andiamo avanti così, il Cenacolo se lo comprerà un super ricco”. Paolo Rossi è molto simpatico, è pure interista, ma era francamente più lucido quando raccontava dell’addio al gin tonic. Un’utente di X che saltuariamente seguo ha scritto disperata perché il Leonka era “il mito di Fausto e Iaio” (sic!), i concerti della Cantantessa, la vita che scorre. Aggiungete anche le birrette che scolava il giovane Salvini e il quadro del com’eravamo giovani è fatto. La verità è che già ai tempi del grande sgombero di Ferragosto di Pillitteri del 1989 (esito: una assurda guerriglia urbana) il Leonka aveva finito di essere alternativo, luogo di controcultura. Già nel 1997 gli Afterhours (“Sui giovani d’oggi ci scatarro su”) cantavano: “La coscienza è un vero sballo /  sabato in barca a vela / lunedì al leonkavallo”.

Mamma Marina Boer che dice “dava fastidio” perché a Milano “non c’è alcuna possibilità umana di visione diversa” appartiene allo stesso formulario retorico. Il Leonka funziona semmai da centro aggregativo, si fa musica e si mangia. Corsi di fotografia, teatro, laboratori di pittura, un’officina e una palestra. Tutte buone cose, ma che oltre a poter essere svolte altrove non sono la rivoluzione. Beppe Sala s’è molto offeso che non l’avessero avvisato. Ma in otto anni la sua giunta edilizia non è riuscita a trovare un capannone in comodato d’uso. E il motivo, però, c’è. Ed è che la legalizzazione per via immobiliare del Leonka (arriverà) era già nelle cose, ben prima del nuovo Ferragosto dello sgombero. E per due volte è saltata non per colpa dei Cabassi, ma perché era chiaro a tutti, nella sinistra a parole antagonista, che sarebbe corrisposta a una definitiva normalizzazione. I duri e puri sono altrove, e trattano i leoncavallini peggio dei menscevichi. Una sorta di circolo Arci, che al massimo può dare fastidio  ai cultori di altri “come eravamo”, quelli che blaterano di “ritorno alla legalità”. Lo sgombero è una scemenza, e si risolverà; ma fa incazzare la sinistra perché è una cesura simbolica, è il loro funerale di Pippo Baudo. Versione come eravamo, quando qui a Milano ci parevano belli anche gli anni Settanta di nebbia e piombo.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"