Una scena di "Come rubare un milione di dollari ed essere felici" di William Wyler
Teledetox
Il furto al Louvre che ci ha fatto impazzire si sta già monicellizzando
La grandiosità e la magia iniziano a scemare, ma le conversazioni sulla "rapina del secolo" non si esauriranno. Ecco qualche consiglio per fare bella figura
"Se il colpo di domenica è sembrato eccezionale per audacia, efficacia e rapidità, i ladri hanno comunque commesso molti errori”. Lo so, è triste, ma lo sapevamo già: quell’impareggiabile magnificenza della rapina al Louvre, quel gesto misurato, perfetto, sincronizzato come una performance della Biennale d’Arte, che tanto ci ha esaltato, inizia a sporcarsi di errori, impronte del Dna, primi arresti. E’ del resto il dramma di ogni grande heist-movie. E poiché le conversazioni sulla “rapina del secolo” – ne siamo certi – continueranno anche questa settimana, spostandosi da “mio Dio che geni” a “alla fine li prendono sempre”, eccovi qualche consiglio utile per fare bella figura (che è poi lo scopo di questa innocua rubrichetta sulle cose da vedere).
“Come rubare un milione di dollari e vivere felici” è il piccolo gioiello (ops) che fa al caso vostro. Sì, quello del ’66 che avrete sempre scrollato pensando fosse roba vecchia (lo trovate su Prime). E’ invece il film che teorizza ciò di cui tutti hanno parlato in questi giorni: i furti d’arte sono sempre una questione di stile. Per questo ci piacciono. Qui c’è Audrey Hepburn, diretta da William Wyler, figlia di un falsario parigino (Hugh Griffith, meravigliosamente canaglia) che ha avuto la pessima idea di prestare una finta statuetta Cellini fasulla. Faranno i test, verifiche di autenticità. Panico. Entra in scena Peter O’Toole, bellissimo, elegantissimo, e insieme orchestrano il furto del falso dal museo prima che venga smascherato. Rubare qualcosa che è già tuo (più o meno) per salvare la reputazione di famiglia: davvero molto chic. Niente esplosioni. Niente inseguimenti. Solo dialoghi affilati, abiti di Givenchy, molta Parigi. La scena del furto – Hepburn e O’Toole che si infilano nel museo dopo l’orario di chiusura – è un balletto di tensione e understatement. Dopo aver tirato fuori un titolo così raffinato – mentre gli altri evocano solo “Ocean’s Eleven” che fa davvero troppo Netflix – conquisterete l’uditorio ricordando che “comunque tutto parte con ‘Rififi’”.
Nel 1955, Jules Dassin ha inventato letteralmente un genere: la rapina impossibile, il piano meticoloso, il colpo silenzioso. I trentatré minuti – trentatré – senza dialoghi né musica mentre la banda svuota la cassaforte di una gioielleria parigina usando ombrelli, estintori, un ingegno che rende le geolocalizzazioni satellitari roba vecchia. Dassin era in blacklist a Hollywood (quel problemino con McCarthy). Si rifugia a Parigi e mette su un noir francese che fa ombra su tutto ciò che c’era stato prima. Ogni heist-movie venuto dopo è di fatto una cover. Tarantino lo sa. Soderbergh lo sa. Perfino i fratelli Russo che hanno fatto Avengers lo sanno. E la prima cover, la mette su Mario Monicelli tre anni dopo con “I soliti ignoti”. L’anti heist-movie di sempre. Dal furto come celebrazione di stile & ingegno alla cialtronata ridicola, la catena di errori, l’inettitudine. E anche la grandiosità, l’eleganza del furto parigino col montacarichi forse si sta pian piano monicellizzando. Del resto nei “Soliti ignoti” c’era il seme di ogni commedia all’italiana. Quell’idea grandiosa che ogni impresa – incluse quelle criminali – sia sempre a un passo dal cazzeggio. Con quella massima che andrebbe scolpita nella pietra nel nostro Monte Rushmore: “Rubare è un mestiere serio, voi al massimo potete andare a lavorare”.