LaPresse
Il documentario
L'incredibile storia di Mr. Scorsese, in cui etica ed estetica sono una cosa sola
Il documentario dedicato da Rebecca Miller al regista americano ne ricostruisce il percorso esistenziale e cinematografico. Dal buio giovanile ai trionfi, la solitudine e le amicizie, i matrimoni e la dipendenza. Tutto attraverso le sue opere e i suoi personaggi
"Chi siamo? E cosa siamo in qualità di esseri umani? Siamo intrinsecamente buoni o cattivi?”. Così inizia Mr. Scorsese, il magnifico documentario che Rebecca Miller ha dedicato al regista (da venerdì scorso su Apple TV+ in cinque parti): sono interrogativi che costituiscono l’essenza di un modo di concepire il cinema nel quale l’elemento etico è sempre inscindibile da quello estetico. Il percorso esistenziale di questo gigante del cinema è iniziato in un universo buio e violento: lo zio Joey era un contrabbandiere e il padre Charles trovò lavoro grazie ad amicizie pericolose, salvo pentirsene e raccomandare al giovane Martin di tenersene alla larga.
È lo stesso Scorsese a raccontare che se fosse rimasto a frequentare gli amici di gioventù sarebbe diventato un gangster o un prete, e Gore Vidal gli fece notare che con i suoi film è riuscito a essere entrambe le cose. Una grave forma di asma lo costrinse a rimanere a casa, dove cominciò a vedere un film dopo l’altro: “Grazie al cinema respiravo”, ricorda, e Spike Lee commenta: “Sia benedetta l’asma”. Fu un sacerdote di nome Francis Principe a fargli capire che la vita religiosa non faceva per lui, spiegandogli che poteva trasformare le sue tensioni spirituali in arte: fa impressione sentire Scorsese che racconta l’emozione che provava da chierichetto al momento della benedizione del pane e del vino: “Ogni volta, in quel momento tutto il mondo si fermava”. Leonardo DiCaprio afferma: “Martin farebbe il cinema gratis: ne è stato consumato quando era giovane e non ha più smesso”. E’ assolutamente vero, ma persino il cinema appare un mezzo all’interno di un viaggio alla ricerca della grazia, e in un momento rivelatorio il regista cita una battuta di “Peeping Tom”: “Questo continuo filmare non è sano”.
Rebecca Miller ripercorre le tappe principali della sua vita e della carriera, i trionfi e gli insuccessi, la dipendenza dalla cocaina, i quattro matrimoni sino a quello con Helen Morris, gravemente malata di Parkinson, che il regista accudisce in maniera commovente. Sono divertenti i racconti dei cortometraggi girati in casa tra i quali un thriller ambientato nell’antica Roma intitolato Vesuvio VI, e la reazione dei genitori alla prima di Mean Streets: “Noi non parliamo in quel modo scurrile!”. In tutta la sua vita la solitudine è andata di pari passo con l’ossessione e l’amicizia è risultata un tesoro impagabile: è stato Robert De Niro a convincerlo a girare Toro scatenato nel momento più buio della sua esistenza, e poi Re per una notte.
Tra i tanti personaggi nei quali si è rispecchiato il più sorprendente è Howard Hughes nell’Aviatore e il più struggente è Jake La Motta in Toro scatenato, in particolare per la scena in cui, rinchiuso in carcere, colpisce con la testa e i pugni il muro della cella urlando “non sono un animale”. Sono molti i racconti che faranno impazzire i cinefili, a cominciare dalla spiegazione delle scelte registiche o la rivelazione che una sequenza di American Boy ha ispirato una di Pulp Fiction. Fu Joe Pesci ad avere l’idea della scena di Goodfellas in cui terrorizza Ray Liotta dicendogli “Funny How?” ed è illuminante il suggerimento di George Lucas su New York New York: “Se nel finale non si lasciano, il film incassa almeno 10 milioni di più”.
Scorsese è riuscito costantemente a incanalare la rabbia nella sua arte, ma non vengono nascosti momenti di intemperanze esplosive: quando si accorse che un addetto alla produzione era incaricato di spiare per conto di Harvey Weinstein, lanciò la sua scrivania dalla finestra. La persona che tentò di uccidere Ronald Reagan raccontò di essere ossessionato da Taxi Driver, ispirato a Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, mentre Ingmar Bergman lo definiva “un film sulla violenza al massimo livello artistico”. Scorsese pensò di minacciare con una pistola un produttore che voleva imporre dei tagli.
L’intera storia americana è caratterizzata dalla violenza, ricorda Spike Lee, mentre Scorsese preferisce spiegare l’importanza della “filosofia” di ogni inquadratura: ancora una volta una scelta etica che guida e rende possibile quella estetica. Non stupisce che nel finale il regista si definisca credente e parli dell’importanza imprescindibile della “rivoluzione cristiana” nei confronti dei peccatori e degli sconfitti. Tra le tante definizioni che ne raccontano il prodigioso talento e la personalità tormentata, quella che rimane maggiormente impressa è di Isabella Rossellini, che ne parla come di un “santo peccatore”.
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