
(Ansa)
Venezia 2025
Marce indietro, delusioni e ritorni sulla retta via. Da Bellocchio a Ozon
Il regista italiano invece di un film ha realizzato una serie sull'arresto di Enzo Tortora. Kathryn Bigelow con “A House of Dynamite” resta fedele ai temi che le sono cari. Il potere, politico e militare, e i giocattoli che servono per conservarlo
Per Marco Bellocchio è l’ora delle marce indietro – diciamo pure “voltafaccia” – rispetto alla sua “bella gioventù”. A 25 anni aveva scritto e diretto “I pugni in tasca”: ritratto in nero, con carneficina, di una famiglia in una grande casa fuori Piacenza. Celebrato manifesto contro l’istituzione familiare. Nel 2021 ha girato “Marx può aspettare”: la famiglia Bellocchio riunita al ristorante per una ricorrenza, con i vestiti della festa e la bella tovaglia. Qua e là, il ricordo commosso di Camillo, fratello gemello del regista, morto suicida nel 1968.
E invece dei film, le serie. Bellocchio ne ha dedicata una – fuori concorso prodotta da Hbo, in Italia l’anno prossimo – all’arresto di Enzo Tortora e alla sua carcerazione iniziata il 17 giugno del 1983 (terminerà 13 mesi dopo, e nel 1987 il presentatore verrà assolto). Manette all’alba, nessuna spiegazione (quando verranno, saranno pochissimo convincenti). L’Italia stava a guardare, senza troppo scandalo. Forse con un certo gusto. “Portobello” era una trasmissione di strepitoso successo popolare. Non c’erano i social, ancora. Ma già c’era la maligna convinzione che se sei ricco e famoso devi avere qualcosa da nascondere – uno sporco segreto o qualche scheletro nell’armadio. Per aggravante, Enzo Tortora era più colto del medio presentatore italiano. Liberale dichiarato, lontano dalla Dc e dal Pci. La regista Kathryn Bigelow con lo sminatore di “The Hurt Locker” ha vinto nel 2009 due Oscar – e li teneva uno per mano come fossero pesi. “A House of Dynamite” resta fedele ai temi che le sono cari. Il potere, politico e militare, e i giocattoli che servono per conservarlo. Nel film vediamo una specie di aereo-pipistrello, deve essere uno stealth di nuovissima generazione, mentre vola verso il nemico: un missile nucleare – di ignota provenienza – lanciato verso Chicago. Non è chiaro a quale dei nemici dell’America vada imputato. Bisogna fare in fretta, capire e decidere. Un paio d’ore da “situation room”, concitate e confuse. Riusciranno a deviare il missile? E come dovrà agire il presidente americano quando non ci saranno più speranze.
Forse è stata la stagione di “Feud” diretta per la piattaforma Disney – “Capote Vs The Swans”, ovvero Truman Capote e le ricche signore di New York che gli raccontavano i pettegolezzi – a riportate Gus Van Sant sulla retta via della narrazione. E alla perfidia di quando dirigeva la giovane Nicole Kidman in “To Die For”. Fuori concorso, alla mostra, ha portato “Dead Man’s Wire”. Una tortura particolarmente feroce che con un cappio di fil di ferro lega il collo di un ostaggio al grilletto dell’arma di chi lo tiene prigioniero. Il figlio del proprietario della Meridian Mortgage è tenuto sotto tiro da Tony Kiritsis, che dalla banca medesima sostiene di essere stato truffato. Ora vuole 5 milioni di dollari, l’immunità, e anche le scuse. E’ accaduto a Indianapolis, nel 1977. Gus Van Sant ha lavorato su un copione – ottimo – di Austin Kolodney, e il meraviglioso attore Bill Skarsgård ha fatto un gran lavoro di precisione.
Delusione – ce ne sono anche quest’anno, a dispetto di una buona qualità media – per “L’étranger” di Albert Camus, nella versione di François Ozon. Suo padre era giudice istruttore ad Algeri, e il regista a differenza di molti francesi non rinnega le origini. Nel 1938, il giovane impiegato Meursault – Benjamin Voisin, era Lucien nelle “Illusioni perdute” di Xavier Giannoli – seppellisce la madre, va a letto con una segretaria e uccide un arabo. Inquadrato dal regista Ozon in bianco e nero, secondo l’iconografia gay: sdraiato sulla spiaggia, ascella in vista.