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Il corpo magico di Jackie Chan

Francesco Palmieri

Locarno celebra l'attore. Con la sua fisicità ha cambiato non solo il cinema cinese, ma tutta Hollywood. Calci volanti e risate

Non è per sindrome di Peter Pan quel Never Grow Up con cui Jackie Chan intitolò l’autobiografia nel 2018. I boomer dovrebbero saperlo, perché già si stupirono da adolescenti guardandolo fare col suo (e del suo) corpo tutto ciò che voleva e magari lo hanno rivisto nel film della serie Karate Kid di quest’anno, mezzo secolo dopo, muoversi ancora con la scioltezza di un leopardo a dispetto della data di nascita: 7 aprile 1954. Dovrebbero tuttora apprezzarlo, i boomer che da ragazzi lo gustarono in Drunken Master nel 1978 quando combatteva con le tecniche imprevedibili di un ubriaco. Come lo apprezzano gli adolescenti attuali quando scoprono quella vecchia pellicola girata con i budget risicati della Hong Kong di allora, sotto corona britannica. Perché con Jackie Chan fanno un salto vitale all’indietro. Dalla virtualità alla realtà analogica, dagli effetti digitali alla gravità dei chili fisici, dall’èra dei tatuaggi a quella delle pelli glabre, e gli uni e gli altri – boomer e giovanissimi – prendono atto della leggiadrìa di quegli scontri stilizzati a fronte dello scomposto cozzo d’ossa e carne degli attuali tornei di Mixed martial arts, dove i Conor McGregor e compagnia si compiacciono di una brutalità che agogna più agli schiavi barbari della gladiatoria che alle divinità taoiste, lontanissime dall’Europa ma universali come gli dèi greci. E’ a quel pantheon cinese che Jackie Chan s’ispirò nel suo kung fu esibendo in Drunken Master le abilità dei leggendari “Otto immortali ubriachi”. Lo faceva sorridendo, in una miscela peculiare di slapstick e virtuosismo ginnico. Prendendo sempre un sacco di botte, anche quando vinceva, è asceso gradino su gradino, film dopo film per quasi un sessantennio – gli esordi da stuntman datano ai primi anni Settanta – alla rinomanza globale di adesso. Consacrata da una stella sulla Hollywood Walk of Fame nel 2002 e dall’Oscar alla carriera nel 2016.

 

      

 

Nell’epoca delle sofisticate tecnologie digitali che hanno rivoluzionato il cinema, Jackie Chan ribadisce: “Se dovessi produrre un film pieno di effetti speciali, non credo che il mio pubblico sarebbe interessato”. Finché lavorerà, che sia lui a dirigere se stesso o chiunque altro, ci metterà il corpo, sempre meno per l’età ma ce lo metterà, offrendo un esempio o un’ambizione ai giovani incollati agli smartphone e incerti se somigliare a un ologramma o a una scimmia feroce che si batte nelle Mixed martial arts. Chan ha mostrato che un’arte non serve solo per picchiare e che lo stile è una conquista, non una costrizione, da cui si libera davvero solo chi l’ha conseguito perché quando lo esprime neppure se n’accorge. E’ così che negli anni Ottanta mutò panni e storie diventando un poliziotto coraggioso di Hong Kong nella serie Police Story, che ha attraversato i decenni per concludersi nel 2013 con Police Story: Lockdown ambientato in un night club claustrofobico e futuribile, dove però lui non è più un detective dell’ex colonia bensì un capitano della Repubblica popolare cinese, perché intanto l’orgoglio nazionale crescente ha coinvolto anche lui. S’è attirato alcune critiche, lui hongkonghese con un nome che lo ribadisce (Chan Kong-Sang all’anagrafe, ossia Chan nativo di Hong Kong), per aver elogiato il Partito comunista, per avere irritato Taiwan, per essere diventato ambasciatore del soft power pechinese poiché è amato dappertutto, dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Africa all’Europa. E’ da decenni il cinese più famoso nel mondo. O almeno lo è tra i viventi. Quello ancora più noto di lui, che non è Confucio ma Bruce Lee, morì cinquantadue anni fa e il 20 luglio scorso, come sempre, la sua scomparsa prematura e avvolta nel mistero è stata commemorata ovunque. Jackie, nella primavera del ‘73 anonimo extra a cottimo, fece giusto in tempo a prendersi qualche botta da Bruce sul set di Enter the Dragon. Se n’è sempre ricordato come di una inestimabile medaglia.

 

E’ da decenni il cinese più famoso nel mondo. O almeno lo è tra i viventi. Quello ancora più noto di lui, che non è Confucio ma Bruce Lee, morì cinquantadue anni fa

                       

Se si volesse giudicare un cineasta non soltanto dalle opere, ma dalle parole, si dovrebbe sottolineare come il sentimento d’orgoglio nazionale rimonti al Bruce Lee di Dalla Cina con furore, che prima di soccombere sotto le fucilate giapponesi fa una dichiarazione patriottica. La trama di quel film s’ispirava alla vera storia di Huo Yuanjia, maestro di kung fu nella Shanghai spartita fra le potenze internazionali ai primi del Novecento e fautore del programma Ziqiang, cioè dell’“autorafforzamento”, propugnato da una élite riformista per rimettere in piedi l’impero fiaccato dall’oppio e ridotto a una semicolonia. Ma la rivendicazione nazionale, o nazionalista, risale ancora più indietro: alla rivolta dei Boxer del 1900 e precedentemente alle società segrete che durante l’ultima dinastia contrastarono la stirpe mancese dei Qing per restaurare i Ming nella Città Proibita. Perciò la star cinese che sfondò a Hollywood nel 1995 con Terremoto nel Bronx e poi con Rush Hour nel 1998, quando Donald Trump era solo un imprenditore immobiliare e Xi Jinping un funzionario di partito, è né più né meno figlia di un sentimento assai anteriore al comunismo. E se i poliziotti impersonati da Jackie Chan hanno conquistato le platee mondiali (con parca effusione di sangue anche nelle scene più spettacolari) è perché propongono valori morali condivisibili sotto qualsiasi latitudine, in più con l’autoironia del backstage e delle scene scartate esibite alla fine: le sue botte ricordano il Bud Spencer di Piedone lo sbirro laddove non prevalgano tonalità più melodrammatiche. Con una costante: “I just want to be a regular guy”. Una persona comune che si ritrova a fare l’eroe perché ha cuore e la capacità di metterci, oltre alla faccia, il resto del corpo scommettendo l’osso del collo. Finzione sì, ma scaturita dalla realtà. Perché il patto esplicito tra Jackie Chan e il pubblico, anche quando gli anni avanzavano, è stato che non usasse controfigure. Sempre lui per davvero. Il personaggio alla fine non muore, ma l’attore rischia di brutto.

In Police Story s’inventa la follia di scivolare dall’alto di un centro commerciale al pianterreno aggrappato a un filo di lampadine (raccontò che mentre si lanciava pensava, non a torto, di poter morire); in Who Am I? combatte sul tetto di un palazzo che a vederlo vengono le vertigini; in Project A (Operazione Pirati) si lascia cadere al suolo dalla torre dell’orologio attutendo il volo con solo due tendoni di negozi. Niente materassi nascosti. Il pubblico questo ha voluto da lui e lui ha voluto darglielo. Se è arrivato a quest’età, e ancora se la batte, sarà per qualche incantesimo taoista ma anche per i dieci terribili anni che gli abolirono l’infanzia e l’adolescenza, trascorsi nella Scuola dell’Opera cinese del maestro Yu Jim-yuen a Hong Kong dove imparò a scudisciate l’acrobatica, le arti marziali, la recitazione tradizionale e tanta disciplina, assieme ad altre future stelle del cinema asiatico come Sammo Hung e Yuen Biao, compagni di gavetta.

 

Se è arrivato a quest’età, e ancora se la batte, sarà per qualche incantesimo taoista ma anche per i dieci terribili anni che gli abolirono l’infanzia e l’adolescenza, trascorsi nella Scuola dell’Opera cinese del maestro Yu Jim-yuen a Hong Kong

                              

 

L’elenco completo degli infortuni di Jackie Chan sui set richiede troppo spazio. Se ne cita qualcuno e per primo il più grave. La caduta da un albero in Armour of God, che gli procurò un buco in testa e compromise l’udito dell’orecchio sinistro: operato d’urgenza al cervello per frattura cranica, una settimana dopo tornava a girare; in Police Story 3 si ruppe uno zigomo; in Terremoto nel Bronx una caviglia ma le riprese continuarono; in Snake in the Eagle’s Shadow (suo primo vero successo) perse un dente per un colpo e così via. Non è mero ardimento, ma il prezzo pagato a un’estetica che sublima la violenza con le arti del corpo e che può fare di qualunque oggetto un’arma originale, come insegna il kung fu classico includendo nella panoplia l’abaco, l’ombrello o per esempio il ventaglio, che Chan maneggiò in The Young Master. Ciascun fan ricorderà dei suoi film le scene che preferisce, ma in ogni selezione c’è la sequenza di combattimento con e tra i risciò di Miracles: The Canton Godfather di cui fu attore, regista e cosceneggiatore. C’è un prima e un dopo Jackie Chan nel cinema d’azione: quando Sylvester Stallone lo invitò a casa gli mostrò un armadio zeppo delle sue videocassette e gli confidò che andava a rivedersele se si trovava a corto di idee. Hollywood ha importato da Hong Kong stili e talenti, mentre in Italia solo quest’anno, con La città proibita di Gabriele Mainetti, si sono finalmente viste coreografie che non sfigurerebbero rispetto a quelle di Tsui Hark o Yuen Woo-ping.

E’ curioso che l’emblema cinematografico di un corpo umano dall’apparenza infrangibile e dai talenti speciali appartenga da oltre mezzo secolo a un cinese, e che segua nell’immaginario occidentale all’altro corpo incantato ma assai più tragico di Bruce Lee. Prima di loro due, di Bruce e Jackie, i cinesi non avevano dignità fisica sul grande schermo. O erano buffi caratteristi con il codino e la “elle” al posto della “erre” oppure detentori dell’algida incorporeità del perfido Fu Manchu nella tunica da mandarino che gli negava forma e movimento. E che veniva per giunta impersonato da un occidentale truccato: Christopher Lee.

Prima di Bruce e Jackie, anche in letteratura il corpo di un cinese nemmeno era sognabile, come affermò in Linea d’ombra Conrad che poi ne materializzò uno nella sagoma asettica di un servitore imperscrutabile nel tardo romanzo Vittoria. Prima di Bruce Lee e di Jackie Chan nessuno avrebbe preso a ispirazione fisica un cinese: dopo di loro, milioni di bianchi e di neri a quei modelli avrebbero ambìto. Lee fu il supereroe senza superpoteri, e nella vita anche studioso di filosofia che in trentadue anni fece in tempo a lasciare massime memorabili (“be water”, “no limitation as limitation”); Chan è invece il “regular guy” sdrammatizzante, e nella vita un povero che diventato ricco all’improvviso scoprì di poter comprare tutto con la carta di credito ma non riusciva a mettere la firma sullo scontrino della ricevuta.

Il “regular guy” sarà tra pochi giorni in Svizzera, ospite d’onore del 78° Locarno Film Festival che si terrà dal 6 al 16 agosto per ricevere (sabato 9) il “Pardo alla Carriera”. “Il motivo per cui Jackie Chan ricopre un ruolo fondamentale nella storia del cinema contemporaneo è abbastanza semplice: dopo essere sopravvissuto al disperato tentativo dell’industria di Hong Kong di trasformarlo nel nuovo Bruce Lee, riuscì ad affermarsi con una idea completamente originale. Attraverso una intuizione squisitamente ritmica e formale, ancorata al montaggio e alla centralità del corpo, ha legato il movimento come lo avevano codificato Buster Keaton, Charlie Chaplin e le gag di Stan Laurel a un contesto completamente diverso: quello dei film di arti marziali”, spiega Giona Nazzaro, direttore artistico del Festival di Locarno ed esperto di cinema asiatico, che ha anche redatto la biografia dell’attore per la Treccani. “Jackie Chan ha fatto dialogare due tradizioni apparentemente lontane: quella del piano sequenza e del corpo in movimento del cinema delle origini hollywoodiano e quella frontale del cinema cinese tradizionale. Questi due mondi s’avvicinano e si fondono e la crasi, se guardiamo al cinema d’azione contemporaneo, è oggi visibile ovunque”.

Come continuare a piacere dagli anni Settanta del Novecento al 2025, passando dalle sciabole alle pistole, dalla kung fu comedy al western marziale ai thriller postmoderni. Come “non crescere mai” senza restare un Peter Pan? “Grazie a una profonda intelligenza cinematografica: sono pochi i cineasti, anche occidentali, che hanno capito il ritmo delle porte che s’aprono e si chiudono di Ernst Lubitsch; pochi che hanno capito come funziona l’umorismo di Blake Edwards, e poi gli equivoci, i nascondigli, gli armadi e così via”, aggiunge Nazzaro. “Jackie Chan con la sua fluidità musicale nell’immaginare il movimento del corpo non è soltanto l’ideatore di gag comiche e spericolatissime, ma un regista che ha portato nel cinema cantonese classico persino l’eleganza del musical alla Stanley Donen. E’ stato il veicolo tra due mondi e da questa transizione è scaturito qualcosa di completamente nuovo: la Hollywood attuale non potrebbe esistere senza di lui e la sua profondissima intuizione”.
Non a caso Tom Hanks lo ribattezzò “Chan-Tastic”.