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l'investimento

Cinefili pro Pal. Il fondo Sequoia investe in Mubi, ma anche in una startup israeliana. Abbonati furiosi

Mariarosa Mancuso

La piattaforma preferita dai cinefili ha stretto un accordo con il fondo Sequoia Capital. Questo ha provocato una serie di disdette di utenti che sbandierano la bandierina palestinese. Qual è il problema? Nessuno, oltre il fatto che la società ha investito – e continua a investire – anche in una startup fondata da difensori di Israele

Una schiera di abbonati in risposta al comunicato di Mubi su Instagram scrivono “disdico subito l’abbonamento”. Non dimenticano di aggiungere “free Palestine”, e relativa bandierina. Qualcuno ha toni più furiosi di altri, tutti sono sdegnati per il tradimento. Mubi, la piattaforma preferita dai cinefili, ha stretto un accordo con il fondo Sequoia Capital, che investirà 100 milioni di dollari. Già aveva parecchio lavorato al festival di Cannes, comprando un paio di titoli che spera possano avere il successo, d’immagine e economico, di “The Substance” con Demi Moore e il suo strepitoso metodo dimagrante. Premio Oscar, e un incasso di 84 milioni di dollari a fronte dei 12 milioni investiti. Che c’è di male in un finanziamento? Tanto più che il fondatore e ceo di Mubi Efe Çakarel – turco nato a Izmir, studi al Mit, un passato alla Goldman Sachs e un terzo posto ai campionati europei di matematica – ha grandi piani di sviluppo. In gara con Netflix, per un pubblico che non ha più voglia di serie e film fatti con l’algoritmo.


C’è di male – secondo gli scontenti – che Sequoia ha investito, e continua a farlo, nella startup Kela, fondata in Israele nel luglio 2024 da quattro esperti di élite, ramo intelligence. “Modern Defense for Israel and Western Allies”: tecno-guerrieri pronti a difendere Israele e l’occidente con mezzi all’avanguardia. Tecnologici e militari, con colpi di genio e lunga preparazione come nel caso dei telefoni cellulari esplosi in contemporanea – illazione nostra, perché a tutto si aggiunge l’effetto sorpresa, e ci sono mestieri e operazioni che si rivelano solo a cose fatte. Se è proprio necessario. “Sequoia ha 50 anni di esperienza: aiuta chi ha idee a trasformarle in business”, risponde Mubi nel suo comunicato. O non-comunicato, perché privo di quel che gli abbonati furiosi aspettavano. Qualcosa come: “No, abbiamo scherzato, torneremo a comprare film per un tozzo di pane, e a finanziarli solo con la videocamera del telefonino”. Si può fare, per carità. E’ un atteggiamento neo-francescano che dimostra la scarsa o nulla conoscenza di come funziona il cinema. 


Si può. Lo ha fatto Sean Baker nel 2015 con “Tangerine”, il suo primo film girato con il cellulare, e certi magnifici tramonti losangelini – passo dopo passo lo ha portato nel maggio 2024 a vincere la Palma d’oro a Cannes. Ma dieci anni sono tantissimi, la tecnologia va veloce e non tutti sono esperti nell’arte di arrangiarsi. Il cinema è ancora una faccenda che richiede soldi e li fa girare. Guai però se vengono da una società che finanzia anche una startup israeliana che mette insieme intelligence e guerra. A nessuno viene in mente, o fingono di dimenticarlo girando documentari addolorati, che la pace non è gratis.  Mubi è stata fondata nel 2007 come piattaforma per distribuire film di nicchia. Ora è cresciuta, produce e distribuisce film da tutto il mondo. Anche la Palma d’oro di quest’anno: “It Was Just an Accident” diretto da Jafar Panahi, più volte condannato dal regime iraniano.

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