
Foto di Wesley Pribadi su Unsplash
A teatro
Carsen a Colono. Il grande regista d'opera e attori eccellenti per l'Edipo all'Inda. Una lezione di teatro
Il regista Robert Carsen aveva già trionfato al Teatro Greco con Edipo Re, ma ora ritorna con Edipo a Colono e si colloca nella zona sublime dell’hit parade degli spettacoli da ricordare
Una delle buone idee che negli ultimi anni hanno avuto all’Inda, l’Istituto nazionale del dramma antico di Siracusa, è quella di affidare le regie delle tragedie ai grandi registi d’opera. Il grandissimo Robert Carsen aveva già trionfato al Teatro Greco tre estati fa con Edipo Re; Edipo a Colono di questa è, se possibile, ancora più bello, e si colloca nella zona sublime dell’hit parade degli spettacoli da ricordare. La grande scalinata dell’Edipo numero 1 è sempre lì, ma con l’aggiunta di cipressi per fare il boschetto delle Eumenidi, che poi compaiono di verde vestite per recitare e danzare due cori che spetterebbero agli abitanti di Colono; arbitrio, certo, che poiché funziona così bene smette di esserlo. Per il resto, il solito Carsen apparentemente semplice, chiaro, perfino didascalico. Ma, intanto, di una precisione millimetrica nella gestione del palcoscenico, per cui tutti sono sempre esattamente dove devono essere: movimenti del coro, in particolare, impressionanti. E poi questa estrema economia di effetti fa sì che basti buttare un’anfora a infrangersi a terra per crearne uno semplice ma efficacissimo.
Chi viene a incontrare Edipo lo fa scendendo dalle scalinate: gli ateniesi, è chiaro, siamo noi, la polis davanti alla quale Sofocle dibatte le grandi questioni filosofiche, morali, religiose, quindi politiche. Giuseppe Sartori fa il sequel del suo Edipo. Si presenta in tenuta standard, orbite vuote, cappottone di stracci (gli altri invece sono in abiti contemporanei, Doc Martens per le figlie mendiche, giacca e cravatta per Creonte, mimetica per Polinice), bastone da mendico: ma la sua interpretazione tutta in sottrazione, talvolta perfino burocratica nell’elencare torti e ragioni, risulta alla fine molto più intensa e commovente delle trombonate “di tradizione”.
Tutta la compagnia è eccellente, con un occhio di riguardo per la giovane Antigone di Fotinì Peluso: e poiché l’anno prossimo Robertino nostro chiuderà il ciclo tebano appunto con Antigone nutro fiducia, come Facta, di rivederla. Insomma, due ore di piacere doloroso o di dolcissima pena che sono una lezione di teatro. Il pubblico foltissimo, composto in larga parte da temibili professoresse democratiche locali provviste di testo greco e prodighe di chiose interminabili sulla traduzione capisce di trovarsi davanti a qualcosa di eccezionale e non si limita ad applaudire: acclama. A proposito di traduzione: quella di Francesco Morosi è pratica, concreta, contemporanea con giudizio, e talvolta azzecca squarci lirici bellissimi, come Antigone che commenta così il babbo morto: “La riva del buio l’ha preso con una fine che sfugge agli sguardi”.
In generale, da nessuna parte come qui capisci davvero che duemila e cinquecento anni fa era già stato detto tutto, e quel che è venuto dopo non è altro che una lunghissima chiosa. Quando Edipo morente dice della luce che “ora il mio corpo ti sente per l’ultima volta”, per esempio, come fa a non venire in mente Tristan e il suo “Wie, hör’ich das Licht?”. Noi posteri, o postumi, non abbiamo inventato niente.