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Cannes '25

Casa antica che vai morto che trovi. “Mission: Impossible”: fermare Tom Cruise

Mariarosa Mancuso

A Cannes una catena di disgrazie, moncherini e lettere scritte col sangue. Mentre l'agente Ethan Hunt ritorna sul grande schermo in costumino nero e ancora tanto fiato per combattere

Nel romanzo “L’incubo di Hill House”, Shirley Jackson fa notare – a una fanciulla sensibile alle case stregate, il tipo che chiude gli occhi e sussurra “sento che qui deve essere morto qualcuno, anni fa” – che in tutte le case, purché abbastanza antiche, è certamente morto qualcuno. Anche più di qualcuno. E’ un’utile guida per affrontare “Sound of Falling” di Mascha Schilinski: un secolo nell’esistenza di una casa contadina nell’Altmark, e – verrebbe da dire – un secolo di gente morta. O mutilata. Era più facile di adesso, con certi attrezzi che si usavano per lavorare i campi. Anche ferirsi, per non andare in guerra.

Già lanciato dai cultori del cinema punitivo come sicuro vincitore della Palma D’oro, senza aver visto gli altri titoli in gara. Protagonista di uno scontro tra il cinema sacro e il cinema profano. Subito dopo era programmato il film di Tom Cruise, l’ultima “Mission: Impossible”. Ma il pubblico, entusiasta del film tedesco, si attardava a lasciare la sala libera. Voleva continuare ad applaudire. Abbiamo anche l’aneddoto edificante. Su un film ben girato, ma pesante e autocompiaciuto, nella sua catena di morti e disgrazie, e moncherini, per quattro generazioni. Miseria nera, sesso rubato, il fiumiciattolo verdolino che attira le ragazze suicide

Vero, il cinema non è solo Tom Cruise con “Mission: Impossible. The Final Reckoning”, che pure è stato invitato con tutti gli onori. Dall’ottavo titolo della saga si capisce quale era la missione impossibile: mettere a riposo l’agente Ethan Hunt. Come personaggio, e come attore che fa da sé le acrobazie – non riusciamo a immaginare i check up, né l’ammontare della polizza assicurativa. In costumino nero, sott’acqua, ha ancora il fiato per combattere. Lo spettatore soffre la lunghezza, le acrobazie sottomarine sono meno spettacolari di quelle sull’aeroplanino. Il nemico si fa chiamare Entità, potentissimo e gigantesco computer che ha la tentazione di dominare il mondo – e per prima cosa ne fa un deserto. Nelle sale italiane dal 22 maggio.

Non c’è solo Tom Cruise. E già abbiamo abbiamo visto a Cannes un altro titolo meritevole di Palma d’oro: aggancia lo spettatore con la sua verità, la sua tragedia, il senso di impotenza e claustrofobia. Il regista Sergei Loznitsa è ucraino, viveva a Berlino già dal 2001. Tre giorni dopo l’invasione russa diede le dimissioni dalla European Film Academy (Efa). Furioso perché il comunicato dell’Efa – avrebbe dovuto essere di solidarietà – era “neutrale, timido e conformista” a confronto dell’aggressione ordinata da Putin. Per raccontarla tutta, qualche giorno dopo lo espulsero dalla loro associazione anche i registi ucraini.

L’accusa: “cosmopolitismo”. Non parrebbe poi tanto grave, ma ha portato in galera parecchia gente. Il film di Sergei Loznitsa in concorso è intitolato “I due procuratori” . Come il racconto di Georgy Demidov, fisico e scrittore, chiuso nel gulag per 14 anni mentre si combatteva la Seconda Guerra Mondiale, e perseguitato dall’Unione Sovietica fino a che morì, negli anni 80. Ne parla Varlam Salamov, nei “Racconti di Kolyma”.

Il primo dei due procuratori è Kornyev, giovane e idealista (come si poteva essere sotto Stalin). Senza barba, una stranezza per le guardie che devono aprire e chiudere le porte del carcere di Bryansk. Molti chiavistelli dopo, arriva dal detenuto di massima sicurezza Stepniak: si regge appena in piedi, ha lividi dappertutto, ha scritto con il sangue, su una cartolina, un appello arrivato al giovane procuratore. Che si prende a cuore la causa, a Mosca vuole raccomandarla a un più importante procuratore. Ingenuo, non sa come funzionano le dittature.
 
 

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