“Sciuscià” di Vittorio De Sica è stata la prima pellicola italiana a vincere l’Oscar per il miglior film straniero 

Statuette d'Italia

L'Oscar al “miglior film internazionale” si fa sempre più globale. E il nostro cinema si adegua

Andrea Minuz

Comincia con “Sciuscià” la storia dei tanti Oscar italiani, anche se all’epoca non se li filava nessuno. Premio onorario prima, poi premio miglior film straniero, diventa il veicolo per far entrare nel mercato americano anche il film d’autore più difficile. Un progetto di europeizzazione del gusto americano. Una lunga avventura

L’Oscar per il miglior film straniero, dal 2020 “miglior film internazionale”, solleticava un tempo passioni nazionali tipo “Giochi senza frontiere” o mondiali di calcio. Vincerà la Francia? Ce la farà l’Italia? La spunterà il Portogallo o la Corea? Ma le frontiere si allentano, le identità si confondono. Nell’epoca del “global film” la short list “Best international feature film” è sempre più melting pot. “Perfect days”, per esempio, è un film giapponese girato da un tedesco (Wim Wenders). “La società della neve”, presentato come film spagnolo, è tecnicamente sudamericano (Spagna, Cile, Uruguay). La Germania candida un regista turco-tedesco (Ilker Catak con “La sala professori”), e la Francia, che aveva puntato su un film vietnamita, si ritrova “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, un film parlato per lo più in inglese con una protagonista tedesca, accanto ai colossi americani, con cinque nomination. “La zona di interesse” di Jonathan Glazer è inglese ma è girato in tedesco, mentre “Io, Capitano”, di Matteo Garrone, tranne quelle due parole finali che danno il titolo al film, è tutto in francese. Però quando l’Italia entra nella fatidica “short list”, si gonfia come sempre la retorica nazionale. Scorrono le ultime statuette rimaste nella memoria: la pazza scorribanda di Benigni sulle poltrone del Dolby Theatre dopo il “Robbertooo!” a squarciagola di Sophia Loren. Il “crazy country, but beautiful” di Paolo Sorrentino, con la dedica a “Fellini, Scorsese, i Talking Heads e Diego Armando Maradona”. Sono in effetti volati questi dieci anni di “Grande Bellezza”. Era la sera del 2 marzo 2014, Matteo Renzi s’era insediato a Palazzo Chigi da pochi giorni, i selfie si chiamavano “autoscatto in diretta” e facevano notizia sui giornali, come quello di Ellen DeGeneres con le star di Hollywood che fece impazzire Twitter, il primo nella storia degli Oscar. Oggi Beppe Severgnini si stupisce che tra gli studenti del suo corso di giornalismo nessuno sappia chi è “Jep Gambardella” (non c’è però da stupirsi, la tenuta di un film nella memoria collettiva è ormai di quattro, cinque anni al massimo, se opera d’autore anche meno). Rispetto a quello di Garrone in corsa per questi Oscar, il film di Paolo Sorrentino era italianissimo. Progettato da un algoritmo per il pubblico internazionale e anzitutto americano: Roma, le fontane del Gianicolo, le terrazze sul Colosseo, via Veneto, e suore, preti, musica sacra, feste sfrenate, Toni Servillo vestito come Tom Wolfe, in una cascata di riferimenti e citazioni felliniane per i palati più raffinati. “Si è giustamente colto nel film di Sorrentino il senso della grande tradizione del cinema italiano”, scriveva Giorgio Napolitano in una nota dal Quirinale. Quindici anni erano passati dall’Oscar a Benigni. Ventidue da quello a “Mediterraneo” di Salvatores. Sembra invece difficile per Garrone, avendo anche rispetto a Sorrentino la sfortuna di una short list con grandi film, tra cui almeno due titoli destinati a restare: il viaggio di Wenders nei bagni pubblici di Tokyo, l’incubo rarefatto di Glazer, che riesce nell’impresa quasi impossibile di fare un film mai fatto su Auschwitz.

    

“C’era una volta in America” di Damiano Garofalo è il testo fondamentale per capire come gli americani guardano i nostri film

  
Per capire il modo in cui gli americani guardano i nostri film c’è ora un testo davvero fondamentale. L’ha scritto Damiano Garofalo, ricercatore all’Università La Sapienza, si intitola, “C’era una volta in America. Storia del cinema italiano negli Stati Uniti (1946-2000)”, edito da Rubbettino. E’ un avventuroso catalogo di storie, vicende minori e personaggi straordinari che comprano, vendono, diffondono, non di rado rimontano i film italiani in America. Una storia che parte naturalmente dallo snodo epocale del neorealismo. Feticcio di un’italianità da esportazione, impacchettato a uso e consumo del pubblico americano, il neorealismo americano diventa ben presto un brand giocato sul fascino dell’“autentico”. Sul richiamo esotico di macerie, povertà, bambini, “attori presi dalla strada”, la Magnani spettinata, sguaiata, struccata. Tutto un repertorio che dal dopoguerra si srotola fino ai panni stesi dell’“Amica geniale”, con film e serie che a volte sembrano fatti apposta per illustrare la tesi “questi italiani erano più simpatici quando erano poveri”. Il neorealismo affascinava quale simmetrico opposto dei lustrini di Hollywood, macchina produttiva industriale, business dove i film rispondono al tribunale del box-office prima che all’impegno o a qualche causa umanitaria. L’Italia era l’alternativa alla “fabbrica dei sogni”. Una fabbrica dell’“autentico”, con Fellini che poi saprà meglio di chiunque altro mediare tra i due estremi, metà sogno, metà Italia arcaica e contadina, diventando non a caso il prediletto dagli americani. 
  

“Roma città aperta” venduto come una storia torbida di lesbismo nazi con torture. Un’idea di Arthur Mayer, esercente di film d’exploitation

  

“Roma città aperta” è il punto di partenza di questa grande invasione del cinema italiano negli Usa. E la storia americana di “Roma città aperta”, da cui prende avvio il libro di Garofalo, è in effetti molto istruttiva. I diritti della distribuzione negli States del film di Rossellini se li aggiudica Rod Geiger, originario del Bronx, all’epoca neanche trentenne. Geiger non era uno squalo di Hollywood ma un militare americano con qualche lavoretto in teatro alle spalle che nel luglio del ‘45 è a Roma. Gironzola per caso dalle parti del quartiere Appio, negli studi della Tecnostampa. Vuole capire come si fa il cinema da noi. Qui si imbatte in Roberto Rossellini alla moviola che sta guardando e riguardando al rallentatore la scena madre del cinema italiano, la corsa della Magnani, l’urlo, le raffiche di mitra, “Francescoooo!”. Geiger è in estasi. Fiuta l’affare. Si impegna così ad acquistare i diritti del film per il mercato americano e chiude l’accordo con Rossellini a meno di venticinquemila dollari. Torna a New York, “con una copia del film nel borsone da viaggio e registra il nome di una piccola società di produzione, la Foreign Film Production”. Qui contatta due amici già inseriti a Hollywood, Joseph Burstyn, ebreo polacco di New York, specializzato nella distribuzione di film sovietici, e Arthur Mayer, già nel reparto pubblicitario della Paramount, che in quegli anni dirige il cinema Rialto di New York. Il film di Rossellini esce in America con il titolo “Open city”. Successo incredibile. “Alla fine del suo percorso di distribuzione negli Stati Uniti, il film incasserà una cifra vicina ai venticinque milioni di dollari, assestandosi al primo posto dei film stranieri con più incassi della storia del cinema americano, almeno fino agli anni Sessanta”. Com’era stato possibile un successo del genere? C’entrano la Magnani, la novità del film di Rossellini, una prossimità con la cronaca mai vista sin lì. Ma c’entra parecchio anche la paraculaggine di Arthur Mayer. Forte della sua esperienza di esercente di film d’exploitation, Mayer sapeva come vendere il film agli americani. Sapeva quali corde toccare per accendere la fantasia di un pubblico che con la Resistenza aveva poco a che fare. Per prima cosa, Mayer “suggerisce di diffondere sulla stampa americana delle foto del film ‘ritoccate’: in una si mostrano due giovani donne, i personaggi di Ingrid e Marina, coinvolte in un abbraccio ambiguo; in un’altra, sfruttando la famosa scena della tortura, si vede il personaggio di Manfredi (l’eroe partigiano di ‘Roma città aperta’) che viene frustato”. Lì dove noi vediamo il mito fondativo della Resistenza, il sacrificio, il riscatto nazionale, gli spettatori americani vedevano una storia torbida di lesbismo nazi con torture e frustate. Mayer spostava il film dall’antifascismo a Sacher-Masoch. 
  

Quando non si faceva leva su cosce e tette nella distribuzione, c’era pur sempre l’“autentico”, l’estasi per “gli attori presi dalla strada”

  

“‘Roma città aperta’ offriva una rappresentazione della sessualità e della violenza impensabili per il cinema americano mainstream”, scrive Garofalo, e la Roma “open city” di Rossellini diventava un palcoscenico universale. “Una città aperta dove tutto è concesso”, preparando così il terreno per il ribaltamento della Città Santa in una nuova Babilonia, quindici anni dopo, con lo scandalo de “La dolce vita” di Fellini. Come sottolinea Garofalo, “la campagna organizzata da Burstyn-Mayer per il film di Rossellini predispone gli standard che saranno poi adottati da buona parte dei film europei distribuiti successivamente: da un lato si enfatizzano i meriti critici e le qualità estetiche”, enfatizzando cioè la rottura radicale rispetto agli standard hollywoodiani, “dall’altro, ci si affida a suggestioni verbali e visive (sessualizzazione, violenza) che, pur rischiando di stravolgere l’universo culturale di riferimento dei film distribuiti, finiscono per orientare lo sguardo degli spettatori americani verso aspetti più sordidi, immorali, perturbanti”. E’ il caso di “Riso amaro”, arrivato in America qualche anno dopo. “Bitter rice” è venduto al pubblico americano facendo leva sulle cosce di Silvana Mangano, “più sexy di Mae West e Jane Russell messe insieme”, come diceva la pubblicità. Partito da un’inchiesta sulle mondine nel vercellese, dalla “risaia come territorio emblematico di una condizione di lavoro tra le più miserabili”, il comunista De Santis si ritrovava regista di un film della saga “maggiorate italiane”. Il corpo della Mangano era l’attrazione principale, “America’s new bombshell!”, recitava la locandina americana. Incasso: sopra i quattro milioni di dollari. Nella pubblicità per “Ladri di biciclette” al cinema Laurel di Los Angeles si vedeva invece l’aggressione del presunto “ladro” a una donna (una scena che nel film non esiste), “di cui si mostrano incidentalmente le gambe accavallate sopra una bicicletta”. Quando non si faceva leva su cosce e tette, scardinando gli schemi puritani di Hollywood, c’era pur sempre l’“autentico”. L’estasi per “gli attori presi dalla strada”. Il fascino per quella fotografia “incerta e tremolante”, come scrive Vanity Fair parlando di “Sciuscià” di Vittorio De Sica. Attorno ai cliché del film artistico pensato per l’Academy Billy Wilder conierà non a caso una delle sue battute più folgoranti: “Giriamo un’inquadratura fuori fuoco, voglio vincere l’Oscar per il miglior film straniero”.
  

Garrone ce l’ha messa tutta per dare una connotazione universale al suo film in America, “il sogno del viaggio fa parte della natura dell’essere umano”

   

Comincia con “Sciuscià” la storia dei tanti premi Oscar del nostro paese, anche se all’epoca gli Oscar non se li filava nessuno. Premio onorario prima, poi premio miglior film straniero, l’Oscar diventa il veicolo per far entrare nel mercato americano anche il film d’autore più difficile. Un progetto di europeizzazione del gusto americano che, come ricorda Garofalo, si è costruito nel dopoguerra grazie a un’estesa rete di sale “art house”, i nostri cinema d’essai, che lì ancora oggi resistono al digitale, proiettano in pellicola film off-off, definiscono il perimetro di una comunità indie coccolata da un’associazione rigorosamente non-profit, la “Art House Convergence” (ce ne sono ancora quarantacinque in California, due in Alaska, una anche alle Hawaii). Cuore pulsante dell’art house, ieri come oggi, è naturalmente New York. “Se il film non va bene a New York”, dice Edward Kingsley citato in esergo del libro, “non ha speranza in nessun altro posto. Tanto vale bruciare il film”. Passato il neorealismo, sarà il turno dei Fellini, Visconti, Antonioni, Pasolini, Bertolucci, ma anche dei film popolari, della comedy Italian Style, come “Divorzio all’italiana” di Germi. Dopo il buio degli anni Ottanta, il film italiano in America rinasce grazie al famigerato Harvey Weinstein, che senza nulla togliere al #MeToo resta un genio della distribuzione cinematografica. C’è Weinstein dietro il successo americano di “Nuovo cinema paradiso”, di “Mediterraneo”, “Il postino”, “La vita è bella”, con la messa a punto di quello che Garofalo chiama “modello Miramax”. Weinstein porta il film straniero dalle parti del cinema medio. Esalta i suoi elementi universali, rimuove il più possibile i caratteri vistosamente nazionali. Ecco la pubblicità naturalmente sexy di “Mediterraneo” che spiega quanto sia meglio “fare l’amore che la guerra”, oppure un audiolibro con Julia Roberts e Andy Garcia che leggono Neruda per lanciare “Il postino”, e altre cose che Garofalo raccoglie e racconta, mettendo in evidenza una cosa che da noi non è scontata: i grandi distributori sono anche degli editori. Progettano, rimodellano, ripensano il senso dei film in base ai mercati. Nel suo tour americano tra festival e consolati per promuovere “Io, Capitano” (distribuito negli States da Cohen Media, specializzata in film francesi), anche Garrone ce l’ha messa tutta per dare al film una connotazione “universale” (“è il sogno del viaggio che fa parte della natura dell’essere umano”). Per sottolineare una visione quasi libertaria, comunque non piagnona, dell’immigrazione. Un’impresa avventurosa, salgariana, nonostante il kiss of death della critica italiana (“un film sul dramma dell’immigrazione”, tanto per tenere alla larga il pubblico). La stampa americana apprezza. Il New Yorker parla di “lyrical effect”. Ma forse, nonostante gli attori presi dal deserto, gli americani non ritrovano nella traversata del Sahara quell’italianità che aveva invece ancora “Gomorrah”, con la “h”, unico sin qui successo di Garrone negli Stati Uniti. Nell’algoritmo americano, mafia batte immigrazione.

 

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