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Oltre lo schermo

L'Almodóvar scrittore di racconti ci ricorda che lui è nato per il cinema

Mariarosa Mancuso

La raccolta “L’ultimo sogno”, un desiderio di bambino che dopo 40 anni riesce a realizzare. La trasformazione da brillante regista e sceneggiatore a romanziere

Nell’ironia sta la salvezza. “Ho sempre sognato di scrivere un brutto romanzo”, annuncia Pedro Almodóvar nei racconti di “L’ultimo sogno”. Escono da Guanda, in accoppiata con l’ultimo film presentato al festival di Cannes e ora nelle sale. Un cortometraggio, per la verità: “Strange Way of Life”, prodotto dalla ditta Yves Saint Laurent – un bel salto dai primi film con i travestimenti e le paillettes per i maschi, e gli abiti di cotonina a fiori con sovrapposto grembiule per le casalinghe (da abbinare alla pantofola di feltro e al gambaletto color carne, talvolta arrotolato alla caviglia). Il regista nato nella Mancia profonda (Calzada de Calatrava, 4.000 abitanti) confessa che sognava di diventare un grande romanziere. Ma tutto quel che scriveva diventava cinema, in Super8 e poi da proiettare nelle sale, con successo immediato. Spiega che sono due mestieri diversi. Consiglio agli aspiranti e ai mediocri: esercitare l’autocritica, se non altro il tonfo sarà meno doloroso.

  

Pedro Almodóvar si mette nel mucchio. Da 40 anni aspetta che le doti da brillante regista e sceneggiatore si trasformino in doti da romanziere, o almeno da scrittore di racconti. Con la malinconia del suo film, “Dolor y Gloria” – l’ultimo è un breve western piuttosto gaio: un cowboy con la giacca smeraldo non si era mai visto, al posto dei mutandoni alla caviglia ora spuntano boxer di cotone a disegnini – decide di passare all’atto. Ha la pazienza dalla sua. “Sapevo fin da bambino di essere uno scrittore. Avevo chiara la mia vocazione letteraria, non ero sicuro invece dei miei risultati”. L’allievo ora non più giovane sfoggia tutta la sua modestia, ben sapendo che dopo “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, “Tutto su mia madre”, “La legge del desiderio” – citiamo i più riusciti, ma anche le suore in “L’indiscreto fascino del peccato” non erano male – non ha più nulla da dimostrare a nessuno. Anche senza citare la mostra al MoMa e il Leone d’oro alla carriera.

 

Ma la scrittura è un’ossessione, Almodóvar in cuor suo patisce. Come possa sentirsi così un regista che è riuscito a svecchiare “La voce umana” di Jean Cocteau, facendola recitare a Tilda Swinton con gli AirPod, per noi resta un mistero. Pieno di tenerezza, per i tanti film che ci hanno fatto divertire. Va comunque detto che un editor, un agente, o un amico vero avrebbero potuto almeno togliere l’Introduzione (infelicemente spiega quel che non abbiamo ancora letto). Avanzare nel libro più che un sogno ricorda un luna park. Riconosciamo scene da film e abbozzi che film sarebbero potuti diventare. “Il lavoro di un regista è togliere”, ricorda Pedro Almodovar, ma sulla scrittura non si sbilancia. Ritroviamo Patty Diphusa, pornostar e un tempo guida nella movida madrilena (“Confessioni di una sex symbol”). L’avevamo conosciuta in “Patty Diphusa e altre storie”, Einaudi Stile Libero (nella sovraccarica biblioteca di casa, niente è facilmente localizzabile, ma lascia tracce).

 

Il più completo e almodovariano  – che Pedro lo voglia o no, lui preferisce le pagine scritte dopo la morte della madre, orfano piuttosto adulto – è il primo racconto intitolato “La visita”. Una donna succintamente vestita bussa a un convento di frati, e chiede del padre direttore. Cercano di respingerla, ma lì era cresciuta, cantava nel coro e ricorda ancora i giorni di festa. I frati seduti al refettorio, travestiti con luccicanti abiti da festa. Maschietta anni venti, Cleopatra, maglione nero alla Juliette Gréco. Vediamo la scena, e le prime prove di “Un tram che si chiama desiderio” che teorizzano un attore maschio al posto di Blanche. Meglio le immagini, Almodovar è nato per il cinema.

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