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Tempi moderni

Sequestrati in sala, l'infinita attesa delle scene dopo i titoli di coda

Mariarosa Mancuso

L’epidemia di lungaggini nei film di supereroi della Marvel contagia anche i credits, smisurati. Obbligare lo spettatore al bis somiglia ad un rapimento

Dev’essere un’altra forma di fluidità, l’epidemia più contagiosa della nostra epoca: ha espanso storie che a malapena riempivano l’ora e mezzo. Quando i film cominciavano con il titolo, il nome del regista e qualche attore. Facevano la gran cortesia di chiudersi con la parola fine, la lista dei “personaggi e interpreti”, magari il fornitore dei cestini per il pranzo. Si poteva andar via prima che si riaccendessero le luci in sala, schivando l’occhio severo dei cinefili. Tranne durante i festival. Scansare i titoli di coda – parliamo dell’epoca pre-covid, quando si entrava con l’accredito senza bisogno di prenotare ogni film – aiutava a rimontare qualche posizione nella fila successiva. Più spesso, in verità, era segno di protesta contro l’assenza del montatore, o della sua subalternità al regista-artista convinto che “lunghezza sia mezza bellezza”. Oggi la malattia ha contagiato i film di genere.

 

A costringere in sala i renitenti – di rado i titoli di coda regalano informazioni interessanti: attori che recitano due ruoli diversi, come Tilda Swinton nel remake di “Suspiria” diretto da Luca Guadagnino – è la forza dei supereroi. Anzi della Marvel, che con il suo MCU – Marvel Cinematic Universe – negli ultimi dieci anni ha cambiato i connotati al cinema e ai suoi annessi. I titoli di coda sono diventati lunghissimi, per via degli effetti speciali – realizzati dal vero, come ha preteso Christopher Nolan per la bomba atomica nel suo “Oppenheimer”, nelle sale da oggi – o fabbricati al computer. Due o tre colonne di nomi, fino ai sospirati crediti musicali e al visto di censura. Finito? Ma figuriamoci! Noi ce ne saremmo già andati, ma non si può: ci sono le scene che vengono dopo i crediti. Stuzzicanti bocconcini per introdurre i film futuri, o le sorprese nel cast, o le reunion, o le partecipazioni speciali in altri film della ditta che fa capo alla Disney. Oltre ai personaggi degli albi a fumetti ci sono inesauribili possibilità di crossover: Topolino potrebbe fidanzarsi con Deadpool. I film con i supereroi sono interminabili – senza tempi morti ricordiamo solo il primo “Black Panther” (il regista era Ryan Coogler, come Greta Gerwig di “Barbie” veniva dal cinema indipendente).

  

Obbligare lo spettatore al bis – servito dopo la sfilza interminabile di nomi e cognomi, sono film che hanno anche una seconda troupe, e tecnici aggiunti nelle varie località – somiglia a un sequestro di persona. Solo i fanatici apprezzano, discutono, esaminano i fotogrammi in ogni dettaglio, convinti che la critica non preveda altre letture, né la visione di film senza gentiluomini giustizieri in calzamaglia. “Siete ancora qui? Abbiamo finito, andate a casa!”, diceva Matthew Broderick nella commedia adolescenziale del 1986 “Una pazza giornata di vacanza”. Rompendo sui titoli di coda la “quarta parete” (noi vediamo gli attori ma gli attori non vedono noi). James Bond annunciava nei titoli di coda i film successivi – non erano d’autore, uscivano ogni anno o due. “L’aereo più pazzo del mondo” comincia con un tassista che in aeroporto lascia il posto di guida e dice al passeggero “torno subito”. Ritroviamo il poveretto dopo i titoli di coda, con il tassametro che continua a girare: “Aspetto ancora dieci minuti poi me ne vado”.

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