film e regime

“Fuuuuck youuuu. Yees”. I due minuti potenti di cinema indipendente iraniano urlati a Locarno

Fabiana Giacomotti

Al festival vince un film contro il regime degli Ayatollah, in cui una ragazza in una scena grida vaffanculo ai mullah, alle sanzioni e ai russi “a cui abbiamo dovuto leccare le palle perché ci dessero un po’ di carburante per ripartire”

Nel film iraniano che sabato scorso ha vinto il Festival di Locarno, “Mantagheye bohrani”, cioè “Zona Critica”, c’è la lunghissima sequenza di una ragazza che si sporge dal finestrino dell’auto in corsa nella notte, sull’autostrada che collega Teheran all’aeroporto. Potete trovarlo sul web, e forse sarà l’unica parte del film che vedrete, perché non pare che ci sia la fila di distributori pronti a immetterlo nei circuiti europei, dunque lode alla giuria presieduta da Lambert Wilson che ha avuto il coraggio di imporlo e al Festival della cittadina svizzera per essere tornato alla propria missione politicamente attiva e schierata.

La ragazza ha una camicia di seta bianca col fiocco, modello Thatcher ma slacciata, i capelli sciolti, il collo da cigno. Per due minuti, lì seduta sul bordo del finestrino di un’auto lanciata a cento all’ora, grida tre sole parole: “Fuuuuck youuuu. Yees” e sono due minuti potenti di cinema, ma anche e soprattutto di storia. La ragazza che grida vaffanculo ai mullah, alle sanzioni e ai russi “a cui abbiamo dovuto leccare le palle perché ci dessero un po’ di carburante per ripartire” non è un’attrice professionista, il suo nome non compare nei titoli di testa e neanche in quelli di coda, che naturalmente non ci sono; interpreta una hostess della compagnia di bandiera iraniana che traffica oppio e odia quel suo doppio status di donna e di iraniana che la mette nelle condizioni di doversi difendere da qualunque cosa tranne, forse, quello spacciatore con cui ha stretto un’alleanza di ferro e che adesso sta per riaccompagnarla a imbarcarsi su un altro volo, che lei prenderà col fiocco di nuovo allacciato e lo sguardo modesto, dopo essersi fatta due strisce di coca ed essersi anche lasciata andare a una sessione di autoerotismo sul sedile che si intuisce e basta, ma che è comunque il motivo per il quale il film, che la Guardia Rivoluzionaria non ha visto perché il regista Ali Ahmadzadech si è rifiutato di consegnarlo come “atto di protesta civile”, è stato bollato come pornografico. 

Ahmadzadech è da anni al centro di una complessa trattativa fra la l’Iran e la Germania che lo vedrebbe vincitore di una residenza d’artista a Berlino, ma che per via della rivoluzione scatenata dall’omicidio di Mahsa Amini non sarebbe ancora stata approvata. Di certo non l’aiuterà a ottenere un visto, e a superare una serie infinita di interrogatori, la natura brutale del film, un prezioso documento storico-culturale sulle notti stordite di droga della gioventù iraniana, rifugio alla frustrazione e alla rabbia, girato fra mille difficoltà e molti escamotage, compresi l’uso parziale di telecamere amatoriali per non attrarre l’attenzione della polizia e una troupe ridotta al minimo. Per realizzare quelle due ore e quei dieci episodi, poi cuciti con grande abilità in una storia unica, c’è voluto un anno, a partire dal 2019: prova che la rabbia covava da tempo anche se, come dice il produttore Sina Ataeian Dena, membro della diaspora artistica iraniana che vive da tempo a Berlino, “agli iraniani ci sono voluti quarant’anni per capire che non c’è modo di riformare un sistema che uccide gli oppositori”. Ahmadzedech non ha potuto raggiungere Locarno, gli è stato ritirato il passaporto ed è sotto accusa per aver mostrato un film senza il consenso del ministero della Sicurezza: portarlo in un festival internazionale, ha fatto sapere, “è stata la mia vittoria più grande”. 

Anche lui, come Dena e come Zar Amir Ebrahimi, protagonista del film “Shayda”, diretto da Noora Niasari e prodotto da Cate Blanchett, vicenda autobiografica di violenza familiare, ma con l’aggiunta acida della componente religiosa e del controllo economico maschile, sa che vincere premi, restare visibili, suscitare dibattito internazionale è il modo migliore per essere al sicuro. “E’ bene che i film indipendenti iraniani abbiano iniziato a farsi vedere, a essere accolti sui palcoscenici più importanti”, racconta in un incontro l’attrice, già premiata a Cannes lo scorso anno per “Holy spider” di Ali Abbasi, storia vera sul serial killer di prostitute, convinto di essere strumento di redenzione divina del mondo: “Ma state attenti a distinguere”. 

Di più su questi argomenti: