L'intervista

Masih Alinejad: "In Iran il corpo e la mente delle donne sono un ostaggio"

"Non c'è niente di più grande della dignità, che va sempre mantenuta anche quando sembra impossibile. Ricordiamoci che siamo noi a poter cambiare le cose". Le conseguenze di una ribellione al velo raccontate nel documentario Be my voice

Giuseppe Fantasia

“Prima copriti i capelli”. È un ordine, più che un invito gentile, che tutte le donne iraniane conoscono, un modo per mortificarle e annullare la loro esistenza. Ma una come Masih Alinejad, giornalista, scrittrice e attivista iraniana, ha deciso di non farlo mai – se non da piccolissima, perché costretta – e di ribellarsi. Masih di capelli ne ha tanti e ricci – come la regista Nahid Persson,  che l’ha raccontata in Be my voice, il documentario toccante e necessario uscito in occasione della Festa della Donna per Tucker Film con Pordenone Doc Fest – “e coprirli è sempre stato un problema”, ci spiega quando la incontriamo a Roma.

 

 

Nel 2009 ha lasciato il suo paese, l’Iran, “un paziente senza cura”, e dopo un periodo passato a Oxford, oggi vive a New York. “Il velo è sempre stata la mia ossessione da quando di anni ne avevo 7 e i miei genitori – soprattutto mio padre, grande sostenitore degli ayatollah al potere – mi obbligavano a indossare l’hijab. La mia rivoluzione è iniziata nella mia cucina”. Una stanza normale in una casa contadina, non borghese, di un villaggio del Mazandaran, nell’Iran settentrionale. “Quel pezzo di stoffa, solo all’apparenza è innocuo, perché è il simbolo dell’oppressione delle donne”, aggiunge tenendo sempre il tono di voce molto alto, una reazione ai troppi silenzi e alla impossibilità di tante come lei di farsi sentire dal regime. “L’ho tolto e ho invitato tante altre donne come me a farlo creando nel 2014 su Facebook la pagina My Stealthy Fredom (La mia libertà clandestina, ndr), che nel giro di poco tempo è stata seguita da milioni di persone”. Il suo è stato un invito a fotografarsi mentre si toglievano le coperture, mostrando i capelli. La rete fu così inondata da centinaia di migliaia di immagini che rimbalzarono in tutto il mondo: donne giovani e vecchie, dalla città ai villaggi, ma anche tanti uomini in segno di solidarietà. Farlo è stata la percezione fisica della libertà, non certo una suggestione. “Questa festa dell’8 marzo non ha alcun significato per me, perché le donne vanno considerate, più che festeggiate, ogni giorno”.

Masih è sempre stata una “disobbediente”. Ha partecipato prima a un club di lettura politico e clandestino, poi ha distribuito volantini contro il regime; è finita in carcere e ha subito violenze, si è sposata con un poeta solo per fuggire ai genitori ed è rimasta incinta prima del matrimonio. È diventata fotografa e poi giornalista parlamentare, sempre contro gli ayatollah. Una “disobbediente civile”, come si definisce nel film e come ci ripete anche a voce all’interno del cinema Caravaggio, dove la incontriamo prima del suo speech con il pubblico. “Esserlo, per me, è sempre stata una cosa normale. Questo non mi fa stare bene, perché mi costa una grande fatica e un grande sforzo, fisico e mentale. Di notte, mi sveglio ogni due ore: accendo il pc per leggere le notizie, per vedere cosa succede, cosa mi scrivono i miei followers (più di sette milioni solo su Instagram, ndr) e i miei haters, che sono sempre meno dei primi.

 

 

 

Il Governo islamico – continua – cerca di distruggermi ogni giorno e non potendolo fare direttamente con me, perché non vivo più lì, lo fa con la mia famiglia (suo fratello Ali è in prigione, ndr) o con le persone a me più care. Da quando ho iniziato la mia lotta, da quando sono diventata la voce di chi alla propria ha dovuto rinunciarvi, sono state arrestate 39 donne del mio movimento. Vi dirò di più: il governo ha messo una taglia sulla mia testa e mi punisce in tutti i modi possibili, perché ha paura di me, ma questo mi da’ potere. Mi da’ forza. Chissà cosa farebbe se fossi lì, ma non mi interessa: non possono comunque arrivare a me”.

 

Guai però a chiamarla leader: “No, non lo sono – precisa – sono solo la continuazione delle voci di tante donne che non possono parlare”. “Per combattere le difficoltà – aggiunge – oggi più che mai, considerando anche quanto sta accadendo in Ucraina, bisogna tenere gli occhi ben aperti. Più si fisserà il buio, più si dissiperà. Non si parla più o quasi del Covid, questo sono in pochi a notarlo, anche se solo in parte è vero, perché Putin – e in passato Khomeini – è il Covid di questi giorni che sta infestando il mondo, un dittatore che se non verrà fermato, farà sempre più danni”.

 

 

“Sono scappata, è vero, dal mio paese, ma non mi sono mai dimenticata, né mi dimenticherò, di chi è rimasto lì, delle mie donne e delle altre minoranze, di chi è stato messo in prigione senza ragione, accusato di aver mosso guerra contro Dio”, tiene a precisare più di una volta. “L’importante è non perdere mai la propria voce, ma soprattutto combattere per la propria libertà che per me che sono cresciuta in un paese in cui il corpo e la mente sono un ostaggio nelle mani dei potenti di turno, vuol dire poter respirare, vuol dire poter essere sé stessi. Non c’è niente di più grande della dignità, che va sempre mantenuta anche quando sembra impossibile. Ricordiamoci che siamo noi a poter cambiare le cose: non mi interessa il futuro, ma il presente. Credo nel potere individuale: tutti sono responsabili verso sé stessi per le cose che evitano di affrontare”.

 

 

Prima di salutarci e di andarsene seguita dalla sua scorta, ci fissa come ha fatto per tutta la durata dell’intervista, ma stavolta accenna anche a un sorriso, perché Masih, nonostante tutto, ama la vita. Lo ha dimostrato e lo dimostra in tutti i modi, in tutto quello che fa e che dice, anche nel ritratto impeccabile che la Persson (la stessa regista di Prostitution Behind the Veil, del 2004) fa di lei. Il suo coraggio è quello dei vinti solo in apparenza, perché in realtà persone così sono e saranno per sempre dei grandi vincitori.

Di più su questi argomenti: