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Il terribile flop di “She Said” al cinema: forse la gente è stufa di indignarsi

Mariarosa Mancuso

Il film è uscito in America lo scorso weekend e ha raccattato la miseria di 2,27 milioni di dollari. Meno dalla metà della cifra attesa. Tre ipotesi per spiegare il fallimento

Non capita mai di leggere su Deadline la parola “lezioni”. Di solito il sito registra e riferisce quel che succede a Hollywood e dintorni, sul fronte artistico o produttivo. Ma qui l’inciampo è piuttosto grave: quasi mai il film prodotto da un grande studio (in questo caso la Universal) aveva incassato così poco. Eppure le recensioni erano ottime (quasi il 90 per cento di giudizi positivi su “Rotten Tomatoes”) e si cominciava a parlare di Oscar.

L’incidente è capitato a “She Said”, il film di Maria Schrader su Jodi Kantor e Megan Twohey, le giornaliste del New York Times che con le loro indagini su Harvey Weinstein (già un po’ in disgrazia per motivi suoi) diedero il via al #MeToo. Per dovere di cronaca: Ronan Farrow sul New Yorker arrivò cinque giorni dopo, anche se poi sgomitò abbastanza per occupare tutto lo spazio. La regista tedesca della miniserie Netflix “Unorthodox” – lodata molto al di là dei suoi meriti, ma la vicenda faceva battere i cuoricini dei sinceri democratici – ha scelto le attrici Carey Mulligan e Zoe Kazan. Entrambe bravissime e avviate verso l’Oscar, che per le giuste cause ha un debole.

 

Il film è uscito nella sale americane lo scorso weekend, e ha raccattato la miseria di 2,27 milioni di dollari. Meno dalla metà della cifra attesa, tra i 5 e i 6 milioni. Terribile flop, non imputabile a fattori “tecnici”, come il marketing o la data di uscita sbagliata. Il pubblico semplicemente ha voltato le spalle. Il giornalista di Deadline a sua volta indaga e avanza ipotesi sulle lezioni da imparare.

Prima ipotesi: il pubblico non ce la fa più. Dopo le elezioni di midterm ha esaurito la capacita di indignarsi e reagire. Non ha voglia di trascorre due ore e un quarto – due ore e un quarto, sì: nessuno più riesce a stare sotto i 100 minuti che per un film sono la lunghezza aurea – in compagnia di una vicenda presa dalla vita e dai tribunali, anche se “pacata e non fiammeggiante di femminismo” (dice il Times).

 

Seconda ipotesi: il pubblico considera chiuso il caso Harvey Weinstein. Lo stanno ancora processando a Los Angeles, ma è già stato condannato a New York, dove si trova in carcere e lì probabilmente resterà. Ora nella parte del cattivo c’è Elon Musk, per non parlare delle criptovalute. Lo sdegno contro Weinstein si è consumato: è un poveretto che si trascina in tribunale, non il diavolo incarnato.

 

Terza ipotesi: i giornalisti non sono così interessanti come credono di essere. Neanche quelli del New York Times (lo dice Michael Cieply che firma l’articolo e per il New York Times ha lavorato). I giornalisti al cinema vengono meglio se sono pieni di difetti, come Kirk Douglas in “L’asso nella manica” di Billy Wilder: un reporter in disgrazia cerca uno scoop per risollevarsi, e  trova un poveretto mezzo sepolto in una caverna indiana. Basta rallentare i soccorsi, le prime pagine sono garantite per un po’ 

Anche Variety sottolinea il disastro di “She Said” – la frase cardine delle indagini, di fronte a testimonianze contrarie bisogna sempre credere alle signore. Un po’ di colpa ce l’ha anche la regista, che voleva sfruttare la popolarità del caso, e non ha immaginato che tra bollette e guerre e Trump che si ricandida avremmo trovato soddisfazione accusando altri cattivi.

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