consigli per le feste

Le migliori serie tv da guardare nelle feste

Mariarosa Mancuso

Ecco la selezione definitiva firmata Mariarosa Mancuso di tutto quello che vale la pena guardare in televisione durante le feste

HARLEM di Tracy Olivier, con Meagan Good, Grace Byers (dieci episodi su Amazon Prime)

 

 

Ecco la nuova “Sex & The City”, per niente nostalgica e contemporanea. Camille, Quinn, Tye e Angie erano diventate amiche alla New York University, ora hanno 30 anni e vivono a Harlem. Una Harlem come non l’avete mai vista, localini alla moda e nuove professioni (ma era abbastanza inedita anche la Harlem borghese, in piena Renaissance anni Venti, nel film “Passing” di Rebecca Hall, bianco e nero su Netflix). Tante sfumature di nero, e di molte altre faccende.

Camille è in attesa di una promozione all’università dove insegna (e dove la wokeness è vangelo): la capa promette e ancora promette ma ancora non s’è visto nulla. Tye ha inventato e gestisce una app di incontri per persone queer (e nere, va da sé). Angie vuole fare l’attrice, ma intanto bivacca nell’appartamento piuttosto lussuoso della stilista Quinn, figlia di mamma benestante – i vestiti sono di gusto dubbio, all’inizio non è accertato neanche il talento dell’aspirante attrice.

I problemi d’amore continuano a occupare la scena, contemporanei eppure così antichi. La queer Tye vuol mollare le amanti prima di essere mollata, ha pronto il suo discorsetto “cara meriti di più” – tale e quale ai maschi che se la vogliono filare senza conseguenze. La romantica Quinn ha un appuntamento disastroso a Long Island, e lì rimane fino all’alba. L’ex di Camille improvvisamente torna in città, sono invitati alla stessa festa, e lei fa le prove davanti allo specchio per sembrare disinvolta e disinteressata al revival.

Che c’è di nuovo, oltre all’inedito panorama e a una certa brillantezza di scrittura e regia? Spiega la showrunner Tracy Olivier: “Ci sono radicali differenze nel dating online. Le ragazze bianche guardano la foto e si domandano: mi piace oppure no? Le ragazze nere devono prendere in considerazione altri fattori. Non sarò per lui un feticcio o magari un trofeo? Non sarà uno dei maschi bianchi che esce solo con ragazze di colore?”.

 


MAID di Molly Smith Metzler, con Margaret Qualley (dieci episodi su Netflix)

 

 

Non sta in cima alle nostre preferenze – tendiamo piuttosto al cinismo e all’ironia, scudi contro i sentimenti sbrodolati sui social. Ma piace tanto, da quel che sentiamo in giro: nelle chiacchiere e nello scambio di consigli le serie hanno scalzato il cinema.

Piace perché le disavventure di Alex e della figlia Maddy (dal memoir di Stephanie Land tradotto in tutto il mondo, in italiano lo pubblica Astoria con il titolo: “Donna delle pulizie. Lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre”) sono talmente accavallate e disastrose da far dire a ogni scena: “Ma dai no! Anche questa, non è possibile!” – detto con tutto il rispetto per la vita grama di Stephanie Land, e dalla sua ferrea volontà di scappare dal marito violento con la bambina in collo e solo 200 dollari in tasca. Nella serie sono anche meno, i numeretti in sovrimpressione mostrano i soldi che man mano se ne vanno, per la benzina e il cibo.


I servizi sociali Usa paiono il tremendo labirinto raccontato da Ken Loach in “Sorry We Missed You”. Non hai diritto a dormire nei ricoveri per donne maltrattate se non hai un lavoro, e i mestieri per una madre senza qualifiche sono puro sfruttamento: stracci, divisa e detersivi a carico della poveretta, padroni di casa che ordinano di svuotare nella pattumiera un frigo pieno di roba buona. Partono per il fine settimana, sarebbe la giustificazione. Son questi i dettagli esagerati che urtano, assieme a certi flashback di felicità famigliare con fotografia da Mulino Bianco. La vita è stentata, il lavoro a distanza di traghetto moltiplica le possibilità di arrivare in ritardo. Alex la mamma esemplare non perde mai la calma, neanche quando deve recuperare la bambola perduta in uno spartitraffico. Scende dall’auto,prende il giocattolo, si gira e vede la macchina semidistrutta, investita da un guidatore ubriaco. Dentro c’era la piccola Maddy nel seggiolino, miracolosamente salva.

 


DOPESICK – DICHIARAZIONE DI DIPENDENZA di Danny Strong, con Michael Keaton (otto episodi su Disney+)

 

 

Aumentavano le violenze domestiche, la prostituzione, l’abbandono di minori, i furti con scasso nelle farmacie. Accadeva sulle montagne e nelle zone industriali: lì le persone fanno ancora lavori pesanti e a rischio di incidenti. Sono i luoghi dove la Purdue Pharma decise di sguinzagliare i suoi rappresentanti per convincere i medici a prescrivere l’Oxycontin: oppioide contro il dolore che secondo il bugiardino (approvato dalla Food and Drugs Administration) dava dipendenza solo nell’1 per cento dei casi. Impossibile, ribattevano i medici. L’informatore – istruito a dovere dalla ditta che aveva raccolto informazioni sui profili psicologici dei camici bianchi – parlava di “lento rilascio del farmaco” e regalava un campioncino. L’efficacia contro il dolore era indiscussa. Quanto alla dipendenza, gli Stati Uniti si trovarono presto in una situazione drammatica – “come San Francisco ai tempi dell’Aids”, sentiamo dire nella miniserie di Danny Strong..

Comincia nel 1986, quando la casa farmaceutica decide di sviluppare un pillola contro il dolore cronico. Per singolare coincidenza: il farmaco di punta della ditta stava andando fuori brevetto, non avrebbe più generato profitti, serviva un nuovo mercato. Vediamo la creazione, la distribuzione, il successo commerciale, le prime avvisaglie della dipendenza di massa (quasi un’epidemia) che spingerà l’Oxycontin fuori legge. In montaggio alternato, le giornate, il lavoro e poi l’impegno civile del bravo dottore Michael Keaton: negli Appalachi va in casa delle vecchie signore per assicurarsi che prendano le medicine. Frase memorabile, nel tentativo di buttar sabbia negli ingranaggi del giustizia: “Limitare l’uso degli oppioidi va contro la narrazione nazionale”.

 


COYOTES di Alex du Bus de Warnaffe e Vincent Lavachery (sei episodi su Netflix)

 

 

Un campeggio di scout in Belgio, cosa mai potrà succedere di male? Parecchie cose, che ricordano un film di Sam Raimi intitolato “Soldi sporchi” e prima ancora un romanzo di Scott Smith intitolato “Un piano semplice” (consigliatissimo da Stephen King, a ulteriore garanzia).

Gli scout entrano in scena e son già di svariati modelli: sul pullman che li porta in campagna (ma poco lontano da una lussuosa villa con una bella ragazza) una biondina canta inni religiosi, mentre i maschi chiedono se qualcuno ha del fumo. O dove potranno procurarsi altra droga all’arrivo. Siccome siamo in epoca di #MeToo, i capipattuglia sono femmine e cercano di mettere in riga il giovanotto più indisciplinato concedendogli mezzora in paese. Il giovanotto si imbatte nella bella ragazza che invece del fumo gli regala una pastiglia e vanno insieme al lago. Il giorno dopo (ancora stonato) in una grotta trova una manciata di diamanti. Proprio una manciata, belli luccicanti anche quando il cervello si snebbia. Nella primissima scena avevamo visto un tizio con il fucile correre dietro a un ragazzo urlando “non mi sfuggirai”: resta malissimo quando l’inseguito, lasciata una macchia di sangue sulla roccia, si tuffa nel lago. La lista degli ingredienti che faranno montare il thriller è quasi completa, mentre la segreteria telefonica ripete messaggi sempre più minacciosi.

Copione, regia e recitazione sono buoni senza colpi di genio. Sei episodi di 45 minuti, non lasciano residui inevasi quando il panettone è finito da un pezzo.  

 


A CASA TUTTI BENE di Gabriele Muccino, con Francesco Acquaroli, Laura Adriani, Valerio Aprea, Euridice Axen (prima stagione di otto episodi su Sky serie e Now Tv)

 

 

Le famiglie, certo. Più numerose e ramificate sono, più c’è materiale narrativo. Rancori, dispetti e ingratitudini si rincorrono di generazione in generazione, poi ci sono i cognati e le cognate: da sempre  ciliegina sulla torta di relazioni già complicate.

Gabriele Muccino non si fa mancare niente: nel primo episodio della serie (stesso titolo del film girato nel 2018 a Ischia, in una casa di vacanza rimasta isolata per il mare grosso) racconta una sfarzosa festa di compleanno. Compie 70 anni il patriarca della famiglia Restuccia – già conosciuta nel film, anche se cambiano quasi tutti gli attori. Ha messo insieme una fortuna con il ristorante che gestisce da svariati decenni. Era partito come cameriere, ha sudato e faticato, odia i festeggiamenti, tossisce troppo spesso e troppo male perché lo spettatore possa stare tranquillo. Lo circondano i rampolli (anche loro ricchi di potenzialità narrative, sui temi eterni delle corna e dei soldi), la consorte Laura Morante, una sorella che si porta dietro un nipote amante del gioco d’azzardo. Ha appena perso 50 mila euro a carte, spera che lo zio si commuova a vedere lui e la sua compagna incinta (spoiler dei primi venti minuti: non si commuove affatto).

Muccino ha sempre il suo talento da regista, i piani sequenza e i passaggi da un personaggio all’altro sono eleganti e fluidi, non certi atroci salti di montaggio che capita di vedere in giro. Di grande effetto (e curata come si deve) anche la sigla: omini minuscoli poggiati su fiori e oggetti, colonna sonora di Jovanotti.

 


THE FERRAGNEZ con Chiara Ferragni e Fedez (otto episodi su Amazon Prime)

 

 

Non bastavano i documentari, ad affliggere la nostra vita di spettatori. Ci sono anche le docu-serie, questa su un fenomeno ancora pochissimo noto, tranne per chi incessantemente disbosca il periglioso mondo di Instagram per strappare qualche rara indiscrezione. I Ferragnez, vale a dire la famiglia più selfizzata dell’universo, che qui per vezzo citazionista e pauperista si stringe sul divano a guardare la televisione a mo’ di Simpson.

Chiara Ferragni aveva già commissionato su di sé il documentario “Unposted”: si intravedevano spiragli interessanti, se la regista Elisa Amoruso non fosse stata così timida (vabbè, diciamo le cose come stanno: rispettosa della committenza). Alle immagini patinate sfuggiva Fedez, che davanti alla cuccia (grande come un castello) dei cani di Paris Hilton chiedeva: “Ma questi di Imu quanto pagano?”. E’ sempre lui che in “The Ferragnez” fornisce le comiche. Per esempio, quando si fa fare il calco della faccia, per una maschera di Babbo Natale che lo avrebbe reso irriconoscibile (dopo sole otto ore di trucco). Voleva fare fare una sorpresa al piccolo Leone. Il quale, appena la porta si spalanca e l’uomo con la barba appare, urla: “Papà!”. E’ sempre il rapper tatuato a provare e riprovare l’intervento a Sanremo (una frase). Arriva sul palco e Amadeus non gli fa spiccicar parola.


La nostra preferita è quando giocando cercano un sinonimo di dittatore: lui fa la faccia cattiva, mimando le zampacce e l’urlo del tirannosauro. Ma certo, “tiranno”. Arriva il parentado, quello di lui alla frase “i dolci saranno serviti in biblioteca” non sa bene dove andare. Lei si definisce “più omogenea”, mentre lui è umorale, fa la cacca senza stress solo a casa sua, e all’occasione consulta il numerologo.