Venezia 2021

“Freaks Out” ha tutto: coraggio, visione, respiro internazionale. Un incanto

Mariarosa Mancuso

Gabriele Mainetti con il nuovo film ha alzato molto l'asticella. Il risultato è straordinario

Cominciamo dai freak, prodigiose e mirabili creature – secondo la tradizione – che prima di Gabriele Mainetti hanno affascinato il regista Tod Browning e la fotografa Diane Arbus. Venivano esibiti come fenomeni da baraccone, rivendicati come etichetta dalla controcultura anni 70 (il rimasuglio è il fricchettone, pure scritto all’italiana). Leslie Fiedler li ha raccontati in un saggio di mostruosa sapienza. Sono finiti nel titolo della serie tv “Freaks and Geeks”, by Paul Feig e Judd Apatow (i “geek” sono altre creature bizzarre, vivono perlopiù appiccicate agli schermi dei loro computer). 

 

 

Freaks Out di Gabriele Mainetti, la recensione

 

Serviva un gran coraggio, per girare “Freaks Out”. La tradizione è ricca – abbiamo tralasciato i supereroi, nelle versioni più recenti che li mostrano sofferenti per la loro diversità. La sensibilità cambia, impone inclusione e rispetto per chi è diverso: gli unici umani da mettere in mostra sono oggi i partecipanti ai reality show (ti schiaffano sull’isola deserta o ti fanno corteggiare da sconosciuti). Gabriele Mainetti ha alzato moltissimo l’asticella, dopo il debutto con “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Il risultato è straordinario. Forse questo aveva in mente il direttore della Mostra Alberto Barbera quando diceva che la qualità dei film italiani selezionati nel 2021 era eccezionalmente alta (escludiamo, come si dice in giro, che si riferisse a “Il buco” di Michelangelo Frammartino: una spedizione geologica, e non sono neppure le grotte con i più antichi dipinti dell’umanità, filmati in 3D da Werner Herzog).

Coraggio, visione, respiro internazionale, un gusto per il pop che raramente circola nel cinema italiano. “Freaks Out” ha avuto le sue peripezie produttive, per non parlare del Covid (e del fatto che avrebbe bisogno delle sale piene, non si gode né si esulta in poltroncine distanziate). Le circostanze lo hanno spinto a ridosso di “Nightmare Alley”, il film di Guillermo del Toro tratto dal romanzo di William Lindsay Gresham: altri fenomeni da fiera, dopo la grande depressione americana (nei cinema a dicembre). 

Al circo Mezzapiotta di “Freaks Out” si esibisce una ragazza che accende le lampadine avvicinandole alle labbra (ha anche poteri meno soavi, pensate alle ragazze elettriche nel romanzo di Naomi Alderman). Un giovanotto che comanda le api e altri insetti (Pietro Castellitto, biondo platino). Ci sono l’uomo-scimmione e l’uomo-calamita. Israel è per loro come un fratello maggiore. Ma siamo a Roma nel 1943, un ebreo non ha vita facile: viene caricato sul camion e gli amici freak non si danno pace.

“Freaks Out” qui accelera e svolta. Ci sono i nazisti e poi ci saranno anche i partigiani, con molte sparatoria (anche troppe, nell’economia del film, evidentemente i soldi per le scene di massa e gli effetti speciali c’erano). La prima di tante svolte: dalla sbrigliata fantasia del regista e del suo sceneggiatore Nicola Guaglianone esce un circo nazista, che cerca di rimpolpare il suo catalogo di stranezze. La miriade di citazioni va da Fellini a “Roma città aperta”, dal fumetto “Hellboy” ai “Fantastici Quattro”, a “Bastardi senza gloria” di Tarantino. Un incanto. Non solo lo spettatore, anche chi ci ha lavorato. 

“Lo chiamavano Jeeg Robot” era più compatto e lineare (i budget ridotti non sono sempre uno svantaggio). Qualche giorno fa un amico ci ha accusato di scrivere troppo spesso che i film sono “troppo lunghi”. Lo sono, fidatevi: meglio che resti qualche voglia, quando le luci si riaccendono. Vale anche per “Freaks Out”: bellissimo e divertentissimo, in zona premi alla Mostra di Venezia. (Ma in due ore e venti qualcosa da togliere ci sarebbe, per far brillare il diamante).

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