L'intervista

Locandine d'autore. L'arte scomparsa di Renato Casaro

Da Cinecittà a Hollywood, parla il maestro dei manifesti: "Così il pubblico sceglieva che film guardare. Ma ora Photoshop ha cambiato tutto"

Valeria Sforzini

Allora gli esterni dei cinema e i muri delle città erano delle gallerie d’arte a cielo aperto. Negli anni ’60, quando i bambini si appostavano fuori dalle sale per decidere quale film sarebbe diventato protagonista del loro pomeriggio, o quando le coppie e i gruppi di amici preferivano le poltroncine in velluto ai tavolini del bar per i loro fine settimana, si sceglieva d’impulso. Gli amanti osteggiati, i pirati a caccia di un tesoro nascosto, i cow boys sfrontati con cappello, mantello e colt li guardavano dalle locandine e li chiamavano con i loro colori, le composizioni che lasciavano intuire lo svolgimento del film, e un tocco di erotismo che andava a tappare qualche falla nella trama. Renato Casaro ha iniziato copiando i cartelloni – come venivano chiamati allora – dei grandi artisti italiani del manifesto. Nato a Treviso, figlio di una casalinga e un operaio, ha imparato da autodidatta, guardando ai disegni di Alfredo Capitani, Luigi Martinati, o alle opere dell’artista Norman Rockwell, che ha fatto dell’iperrealismo la sua cifra stilistica, assieme a ironia e impegno civile.

 

Da quando, ancora adolescente, trascorreva le giornate al cinema e imitava i grandi disegnatori, agli anni del lavoro negli studi pubblicitari di Roma, fino all’esplosione della sua carriera nel mondo, con l’introduzione dell’uso dell’aerografo, che ha cambiato per sempre il modo di realizzare manifesti cinematografici, la vita di Casaro è stata un susseguirsi di scelte e di casi fortuiti. Anche se è difficile parlare di fortuna quando c’è di mezzo il talento. Oggi ha 85 anni e ha alle spalle centinaia di locandine che sono entrate a far parte della storia del cinema italiano e mondiale. I primi western, o meglio gli ultimi, riportati in vita nel ’64 dal successo di Per un pugno di dollari, hanno aperto una lunga lista di cartelloni firmati Casaro. Da Buffalo Bill a 7 dollari in rosso, a Pochi dollari per Django, a tutta la serie di Lo chiamavano Trinità, hanno segnato l’iconografia degli spaghetti western per gli anni a venire, al punto che Quentin Tarantino ha richiesto espressamente che Casaro realizzasse la locandina per il suo ultimo film C’era una volta a Hollywood, nel 2019. «Non lo conoscevo nemmeno, se non di fama – racconta Casaro al Foglio – mi ha cercato lui. È stato un grandissimo onore. Mi fece una dedica straordinaria dicendo che il mio lavoro avrebbe nobilitato il suo film. Tarantino è sempre stato un amante del cinema italiano».

  

Terence Hill e Renato Casaro

Poi i noir, i classici della commedia all’italiana con Amici miei, Sapore di mare, Acqua e sapone con Carlo Verdone, Io so che tu sai che io so con Alberto Sordi e Monica Vitti, solo per citarne alcuni. A metà degli anni ’80, da Cinecittà approda a Hollywood, con i grandi Blockbuster americani come Balla coi lupi, Octopussy, Il nome della rosa, L’ultimo imperatore, il primo realizzato con l’aerografo. La sua città natale, Treviso ha organizzato una mostra dedicata a lui, esponendo al nuovo Museo Nazionale Collezione Salce – nelle sedi della Chiesa di Santa Margherita e del Complesso di San Gaetano – e ai Musei Civici di Santa Caterina, una carrellata di opere di Casaro. Dai bozzetti agli ultimi cartelloni, la mostra “Renato Casaro – L'ultimo cartellonista del cinema” documenta 170 film ed è visitabile fino al 31 dicembre 2021.

 

«A 17 anni, la mia passione era il cinema – racconta al Foglio – era l’unico svago che avevamo allora. Passavo le giornate al Cinema Teatro Garibaldi e all’ Esperia di Treviso. Mi affascinavano le immagini di queste star bellissime, le ambientazioni. Così, quando ho iniziato a lavorare per uno studio pubblicitario, ho imparato le basi per la costruzione del manifesto. Mi ispiravo soprattutto ai maestri del cartellonismo cinematografico italiano. Cercavo di guardarne il più possibile, di studiare per capire le tecniche». A 19 anni, l’unico obiettivo era arrivare a Roma. «Sono partito con il mio book sottobraccio e ho girato per tutti i principali studi cinematografici della città. Ebbi la fortuna di entrare nello studio di Augusto Favalli. Quando vide i miei bozzetti, mi chiese di iniziare a lavorare per lui. Non avevo ancora un mio stile, ma avevo voglia di imparare».

 

Renato Casaro oggi

A proposito di eventi fortuiti, Casaro trascorse gli anni del militare a Roma. Un periodo un po’ diverso dalla classica vita da caserma, visto che grazie al suo talento era stato incaricato di dipingere i manifesti della Difesa. «Ero un militare speciale – spiega – mi avevano messo a disposizione una stanza con un tavolo da disegno e questo mi servì per mantenere i miei contatti». Poi l’apertura del suo primo studio personale, vicino alla stazione, dove si trovavano tutte le case cinematografiche. «Negli anni ’70 cominciò a esplodere la mia personalità. Prima il manifesto era molto raccontato e stereotipato – racconta – Erano cartelloni in cui c’erano lui, lei e il cattivo alle loro spalle e una battaglia in basso. Col tempo ho imparato a sviluppare uno stile mio, condensando il messaggio nelle immagini più semplici ed evocative. Una su tutte, quella de L’ultimo imperatore (1987), con la figura del bambino al centro, in cui l’uso dell’aerografo ha contribuito a farlo sembrare immerso in un’aura di poesia».

 

Negli anni ’80 e ’90, con la piena maturità arrivarono anche le commissioni per i film dei registi più importanti. «Allora il regista interveniva nel mio lavoro – racconta – Sergio Leone e Bernardo Bertolucci erano felicissimi di potermi consigliare, darmi qualche spunto. Nasceva una collaborazione totale tra regista, produttore e attori. Quando feci la serie di film di Bud Spencer e Terence Hill ero il loro pittore ufficiale. Erano loro stessi a cercarmi perché si riconoscevano nei miei dipinti. Ero riuscito a scavare nella loro anima, avevo colto il loro lato umano fra l’umorismo e il sarcasmo, avevo creato uno stile mio di fare pubblicità. Per non parlare della relazione con Leone: l’opera più bella che ho realizzato per lui è senz’altro C’era una volta in America». Poi ha viaggiato per il mondo con i suoi manifesti. «Ho lavorato per tutti, I Rambo e i Conan negli Usa, Nikita e La Pantera rosa in Germania – racconta – ma quell’epoca d’oro è finita. Quando ho iniziato io le strade erano tappezzate di manifesti, i cartelloni erano determinanti. Il pubblico sceglieva il film da guardare in base a quelli. Oggi con la tecnologia, Photoshop e le campagne sui social, il manifesto non serve più, non ha la stessa funzione. Allora parlavamo davvero con il pubblico».

 

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