Non è stata una grande serata per Netflix ai Golden Globe

Aveva 34 candidature e ha vinto due soli miseri premi in un evento che si è contraddistinto per brutti vestiti, pianti, battute non riuscite e trionfi scontati

Mariarosa Mancuso

Il maestro di cerimonie Ricky Gervais ha detto agli ospiti “ora vi sfotto”, e si è messo d’impegno, azzeccando qualche battuta e mancandone altre: “Sarà il mio ultimo anno qui, la vita è breve e non ha un seguito”. L’intenzione di smettere era già stata annunciata, evidentemente non si trova un sostituto: la battuta tra la cena vegana per salvare il mondo e i vegetali dell’Associazione stampa estera a Los Angeles potrebbe sveltire le pratiche. Le sconcezze sono state coperte in tv dai bip, una pillola di saggezza ha cercato di stroncare i messaggi: “Non fare proclami sullo stato del mondo, avete tutti il jet privato là fuori, e se l’Isis girasse film i vostri agenti sarebbero già a caccia di un ruolo per voi”.

 

L’affondo vero è arrivato da Sacha Baron Cohen, che continua la sua guerra contro le macchine di propaganda social. Presentando “Jojo Rabbit” – candidato nel girone commedie – ha paragonato Mark Zuckerberg al ragazzino protagonista: “E’ ingenuo, mal consigliato, e ha solo amici immaginari”. Nel film, diretto dall’ebreo polinesiano Taika Waititi, l’amico immaginario ha la divisa e i baffetti di Hitler (lo vedrete il 16 gennaio). La platea pareva sollevata per il cambio di bersaglio.

 

Parlando di cinema, nella categoria “comedy” (vabbé, sono i deliri della classificazione) ha vinto Quentin Tarantino con “C’era una volta a Hollywood”: film, sceneggiatura, Brad Pitt attore non protagonista (e qui abbiamo esaurito le battute). Nella categoria “Drama” – i Golden Globe distinguono, dando una chance in più agli attori e ai registi che mettono piede sul terreno più difficile che c’è – ha vinto “1917” di Sam Mendes, anche miglior regista. E’ un lungo piano sequenza tra le trincee e la terra di nessuno della Prima guerra mondiale: due soldati britannici, con la faccia da ragazzini, devono consegnare un messaggio: l’esercito tedesco ha teso una trappola, 1.600 commilitoni sono in grave pericolo, tra cui il fratello di un messaggero. Non basta perché lo spettatore si appassioni a un film tecnicamente impeccabile, più esibizione di stile che “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg.

 

Gli attori premiati – parliamo di protagonisti, categoria drama – sono Joaquin Phoenix per “Joker” di Todd Phillips e Renée Zellweger per “Judy”, il biopic sugli ultimi anni di Judy Garland (nelle sale dal 6 febbraio). Nella categoria “non drama” – viene meglio chiamarla così – Awkwafina ha vinto per “Farewell - Una bugia buona” di Lulu Wang: prima attrice di origini asiatiche nell’albo d’oro, per chi tiene il conto (il film era in sala prima del ciclone Zalone). Taron Egerton ha vinto per “Rocketman” di Dexter Fletcher: aveva la parte di Elton John, con l’approvazione del medesimo. Scelta singolare, tra i rivali c’era Leonardo DiCaprio (lui sì considerato “protagonista”).

 

Non è stata una grande serata per Netflix. Aveva 34 candidature – sei soltanto per “Marriage Story” di Noah Baumbach, altre cinque per “The Irishman” di Martin Scorsese. Ha vinto due miseri premi: Laura Dern come non protagonista (l’avvocatessa feroce che si mette di mezzo tra Scarlett Johansson e Adam Driver), Olivia Colman protagonista nella serie “The Crown”. E si è aggiudicata le peggiori battute della serata, paragonabili soltanto alla sfilata di brutti vestiti con maniche a palloncino, un’ossessione: Joe Pesci paragonato a “Baby Yoda”, e la statura di Martin Scorsese (funziona sempre). Il tenero Tom Hanks, premiato alla carriera con il Cecil B. De Mille, non sapeva più dove guardare. Sul palco si è commosso fino alle lacrime dando la colpa al raffreddore.

 

Parlando di serie, hanno trionfato come da copione “Fleabag” di Phoebe Waller-Bridge (Amazon) e “Succession”, prodotta da Hbo come la premiata miniserie “Chernobyl”. Non siamo più sperduti alla periferia dell’impero, le abbiamo già viste tutte con profitto.