(Foto LaPresse)

Arrivederci Saigon

Mariarosa Mancuso

Il nuovo film di Wilma Labate, un montaggio di interviste alle ex ragazze di Piombino, Livorno, Pontedera che nel 1968 si ritrovarono in Vietnam

Le storie sono di chi le trova. Vero. Ma sono soprattutto di chi le sa raccontare (il primo che alza un dito contro lo storytelling verrà passato per le armi: l’opposizione dovrebbe sbrigarsi ad imparare l’arte, invece di rispondere tremebonda al test compilato da Michela Murgia con lo scopo di scovare “il fascista dentro di noi”). Wilma Labate ne ha scovata una. Avrebbe potuto tirarne fuori un cortometraggio, o un documentario con l’afflizione della voce fuori campo, un montaggio di interviste alle ex ragazze di Piombino, Livorno, Pontedera che misero su un complessino chiamato le “Stars”. Nel 1968 si ritrovarono in Vietnam, a suonare per i soldati americani. Senza sapere abbastanza inglese da capire cosa volesse dire “downstairs”: quando sentirono urlare la parola, dalla loro stanzetta pensarono che volesse dire “mettetevi in salvo sul tetto”. Salirono a precipizio, e da lì osservarono un bel po’ di bombe cadere.

 
Dalla storia, Wilma Labate ha tirato fuori un bel film intitolato “Arrivederci Saigon”. Non facilissimo da trovare nelle sale (in questi casi siamo convinti che se lo comprasse Netflix, o un’altra piattaforma streaming, sarebbe un bel vantaggio per gli spettatori che non abitano in città fornite di cinemini adeguati). Quattro delle cinque ragazze raccontano la loro storia (una non ha voluto partecipare) e Wilma Labate lavora con i materiali di repertorio. Il 68 in Italia, il 68 a Parigi, le manifestazioni contro la guerra del Vietnam, i vietcong, i reduci, il dj di “Good Morning Vietnam”, il napalm, i tunnel, le infermerie, i prigionieri, le torture, i ragazzini americani in divisa che addobbano un carroarmato per festeggiare il Natale.

 

A casa, c’erano le acciaierie e gli operai di Piombino. Sono immagini e filmati scelti benissimo. Montati in maniera così sapiente che lo spettatore non soffre per la mancanza di quel che all’inizio si aspetta di vedere. Le esibizioni del gruppo, per esempio: solo qualche vecchia fotografia, con pantaloni neri e giacche nere (bianchi i profili, per far risaltare i bottoni). Doveva essere la tournée del secolo, spiega una delle ragazze. Procurata dal fidato – fino a quel momento, almeno – impresario Saggini (in precedenza si era spinto, con i suoi ingaggi, fino a Bari). Le ragazze partono fiduciose, del Vietnam non avevano mai sentito parlare. Al ritorno, sono sottoposte a processo da parte del Pci: il testimone/intervistato è ancora furioso, come se fosse successo ieri e non mezzo secolo fa, ormai sono tranquille signore che insegnano il solfeggio ai bambini. Bisognava andare nel Vietnam del Nord, come Joan Baez. Ora le signore lo sanno. Mentre evocano qualche passioncella, giurano del tutto platonica. 

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