Festa del Cinema di Roma 2017

L'arte di fare i documentari senza i selfie e gli horror di Palahniuk

Mariarosa Mancuso e Anselma Dell'Olio

Business e cultura. Roma è una location possibile?

Lo si guarda – e lo si ascolta – incantati. Alla fine pensiamo: ma documentari così si potranno ancora fare? Non è solo per via di Maria Callas, che era Maria Callas (la diva ripete nei filmati d’archivio che un marito e i figli appagano una donna più degli applausi: era una grande attrice, ma non risulta convincente). E’ per la sorte delle fotografie nell’èra dei selfie. E’ per il destino dei filmini all’epoca delle videocamere. E’ per l’accumulo disordinato dei materiali che saranno a disposizione dei futuri documentaristi, mentre Tom Volf in “Maria by Callas” fa tesoro dei (relativamente) pochi materiali a disposizione. Le interviste televisive; le recite al Metropolitan o alla Scala riprese in super 8 come le immagini sullo yacht; quel genere televisivo da cinegiornale che riprendeva i ricchi e famosi sulla scaletta dell’aereo, le lettere inviate da Maria Callas alla maestra di canto o all’amica Grace Kelly. Ogni immagine ricuperata dal passato – quando ancora non sguazzavamo nell’abbondanza – aggiunge un tassello al mosaico. La quantità di materiale risulta ancora governabile. E leggibile: non è detto che tutti i selfie tra mezzo secolo saranno ancora recuperabili e guardabili (un amico informatico fa un triplo backup di tutti gli scatti che probabilmente non avrà mai voglia di vedere, duravano più gli scatti conservati nella scatola in soffitta). Fanny Ardant presta la sua voce per le lettere private, caricando troppo i toni una sola volta. Per lunga esperienza di radio: basta far capire le parole e la sintassi, l’emozione deve metterla chi ascolta.

 

Marc Webb ha un film in uscita nelle sale oggi – intitolato “Gifted”, racconta una bambina con molto talento per la matematica e poco per la vita (continuiamo così, a sparlare dei matematici, come se non ci fossero abbastanza poeti in giro) – e uno alla Festa del Cinema di Roma. Decisamente più allettante, per chi ricorda “500 giorni insieme”, con Joseph Gordon-Levitt e Zooey Deschanel. Ne ricavammo la grande lezione: “Non è perché vi piacciono le stesse stronzate che siete fatti l’uno per l’altra”. “The Only Living Boy in New York” racconta un giovanotto un po’ confuso. E’ andato a letto una volta sola con una ragazza fidanzata con un altro, si è convinto che morirà d’amore per lei, ascolta i consigli di un vicino piuttosto arruffato e amante della bottiglia (Jeff Bridges, chi altro?). Parentesi: la ragazza va a un party di intellettuali – il padre del ragazzo ha una casa editrice – e quando torna dal bagno riferisce “in tre hanno cercato di molestarmi”. Il ragazzo scrive, certo (ma papà gli respinge i manoscritti). E abbiamo qualche sospetto sul vicino solitario e fumatore. Ma Marc Webb ha una grazia tutta sua, nel raccontare questa storia newyorchese. Sa benissimo che l’abbiamo già sentita. Sa altrettanto bene che ne anticipiamo le sue mosse, e riesce a spiazzarci. L’originalità è sopravvalutata: l’abbiamo ereditata dal romanticismo e sarebbe ora di disfarsene.

Mariarosa Mancuso

 


 

All’incontro con Chuck Palahniuk, il direttore chiede se la violenza che spesso esplode in America è qualcosa che fa parte del carattere nazionale. L’autore di Fight Club (da cui David Fincher ha poi tratto il film omonimo con Brad Pitt e Ed Norton) fa un salto sulla sedia. “Tutti cerchiamo una ‘unified field theory’; mettere sotto un unico ombrello forze molto diverse”. Nemmeno ci prova ma intanto distingue diversi tipi di assassinii a ripetizione che si notano poco perché succedono all’interno di gruppi che tendono a essere ignorati da chi non vi appartiene. Per esempio, gli afroamericani ammazzano in quantità persone della stessa razza, e ci sono molti omicidi nel mondo gay, ugualmente ignorati da chi non è omosessuale. Palahniuk, zuccotto di maglia bianca sulla pelata, chiosa che ora, in California, infettare consapevolmente un partner con il virus Hiv non è più reato ma misfatto.

 

In queste conversazioni si parla sempre di cinema ma raramente di film horror. L’autore è un appassionato del genere, e ha scelto alcuni film, tra i quali Rosemary’s Baby e Elephant Man – erano gli unici che conoscevamo. Lo scrittore notava come certi film falliti all’uscita e ignorati dal pubblico, col tempo diventano di culto. Fight Club stesso nel 1999 era descritto come “uno spot per profumi”; oggi è un classico. E’ successo anche per Miriam si sveglia a mezzanotte (1983) il film preferito di Fincher. Era il film d’esordio di Tony Scott (Top Gun) con un cast da sogno per un film di genere: David Bowie, Catherine Deneuve e Susan Sarandon. Al Maxxi c’era un convegno sul tema “Rome, City of Film”, titolo conferito alla Capitale dall’Unesco nel 2015. Lo scopo era di rendere concreto un progetto piuttosto fumoso. Le città nobilitate dall’organizzazione Onu per la cultura s’impegnano a “promuovere e mettere in rete le migliori esperienze maturate nell’ambito dell’industria culturale e cinematografica, a fare della Creatività un elemento trainante del loro sviluppo economico”, con una collaborazione tra pubblico e privato. Nel panel c’erano i Big guns delle istituzioni di settore: Francesco Rutelli (Anica) Giorgio Gosetti (Casa del cinema) Felice Laudadio (Centro Sperimentale) Roberto Cicutto (Luce-Cinecittà) Luciano Sovena (Roma-Lazio Film Commission) Giancarlo Leone (Ass. produttori tv). Volavano vocaboli che farebbero rabbrividire l’Accademia della Crusca: “brand”, “fruizione”, “sinergie”. Il più interessante era Sovena, che ammetteva “un difetto di comunicazione per le attività a favore dell’audiovisivo”. In soldoni, la sua commissione ha parecchi milioni di euro per diverse iniziative. Una di queste ha mandato 250 studenti di cinema in diverse capitali europee e anche a Cuba, dove la scuola di sceneggiatura ha fama di eccellenza. L’obiettivo sarebbe di attirare produzioni estere a girare in Italia. Ora vengono ma i film sono a maggioranza soldi italiani; in futuro si spera che gli stranieri vengano a filmare da noi in produzioni a maggioranza estere. Era l’unico intervento che presentava un progetto concreto. Felice Laudadio ha espresso in finale quello che tutti noi nel pubblico stavamo pensando: “Speriamo di non ritrovarci tutti qui tra un anno a riparlare della necessità di progetti sinergici per dare corpo a ‘Roma, Città del Cinema’, senza aver combinato nulla nel frattempo”. From your mouth to God’s ear.