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Noci d'inganno. Riflessioni sul cibo davanti alla tavola imbandita

Antonio Pascale

Com’è doloroso il cenone, con quella domanda esistenziale che ci tormenta: fare la festa o subirla? Non resta che mentire a noi stessi

Prima di ogni cenone di fine anno mi ricordo di quella battuta così amara pronunciata nel quinto atto dell’Adelchi quando, sul punto di morte, il principe dice: non resta che far torto o subirlo. Ho sessant’anni e da svariati decenni ormai, a ogni cenone, faccio mia la battuta di Adelchi. Specialmente dopo aver osservato la tavola preparata secondo i crismi, nonché i consigli degli esperti di galateo natalizio. Tra l’altro spesso di un’ovvietà deprimente. Per esempio: preparate la tavola prima dell’arrivo degli ospiti, non riducetevi all’ultimo minuto, ricordatevi che la tovaglia dovrà essere ben pulita  e stirata, quindi controllatela prima, così da poter rimediare, lo stesso vale per i tovaglioli che dovranno ovviamente essere abbinati in base al colore della tovaglia, ecc. ecc., insomma un po’ ricordandomi dei consigli che ho dovuto seguire, specialmente alla vista della tavola, faccio mia la battuta di Adelchi, ovviamente parafrasandola: (nella vita) non resta che far festa o patirla

                 

 

Che vuoi fare, è pure colpa degli esperti se il cenone assume una connotazione esistenziale, venata di pessimismo: il galateo vuole che le posate siano posizionate verso l’interno e da sinistra verso destra. A sinistra del piatto la forchetta normale e quella del pesce, a destra ci saranno i coltelli, con la lama rivolta verso l’interno, e cucchiai, le posate per formaggi e dessert, invece, in alto orizzontalmente. I bicchieri posizionati in base alla loro grandezza, prima quello dell’acqua, più grande, e poi vino rosso, vino bianco e flûte per lo champagne o lo spumante. Per l’acqua utilizzare sempre una caraffa: per l’acqua frizzante, invece, è ammessa la bottiglia in vetro, ma mai quella di plastica, ecc. ecc. Così, dopo aver seguito i consigli degli esperti e preparato la tavola, a guardarla ora che è pronta ad accogliere l’arrivo delle diverse portate (chiameremo a viva voce la padrona di casa: “Dai siediti con noi”. Affermazione che rivela tutta l’ipocrisia di una certa idea della vita, se non c’è qualcuno che serve a tavola poi la festa non va avanti), ora che siamo pronti per ascoltare il discorso di fine anno del Presidente e parlare anche noi come se fossimo dei Presidenti, e lo champagne, il conto alla rovescia, i desideri, ecco. Davanti alla tavola imbandita, immaginando lo svolgersi della serata, pensare che il cenone di Capodanno sia una questione esistenziale nasconde una verità sulla vita che non vogliamo cogliere. 

 

Davanti a una tavola imbandita secondo i noti crismi, chi è così pazzo da mettersi a ricordare il valore simbolico della polenta e delle lenticchie?

                 

La vita? O facciamo festa o la subiamo, nel senso che nella vita vince chi fa incoscientemente festa, perde chi subisce la festa. La vita – sembra dirci la tavola apparecchiata per il cenone di Capodanno – altro non è che seguire i consigli degli esperti della vita. Poco importa se poi li vedremo disattesi dopo qualche secondo. Vero o no che i piatti e le posate finiranno spaiati, i bicchieri si confonderanno, la digestione ci farà soffrire già dall’antipasto, molti di noi finiranno il conteggio alla rovescia piegati sul wc, altri già dal secondo bicchiere di prosecco sentiranno il classico effetto mortifero, tipico del post orgasmo, quando, nonostante il piacere, ti senti avvolto in una nebbia di accidia: la vita è tutto quello che succede nonostante la festa.
Ci sarebbe da imparare questo dai cenoni. Ma rifletterci costa fatica e dolore, e quindi meglio arrivare a tavola con il sorriso stampato. Meglio premunirsi con dei piccoli trucchi, del tipo: prima della cena, mangio un paio di noci. Lo dicono i guru dell’alimentazione: per non ingrassare bastano un po’ di noci prima dell’abbuffata. Come sono scaltro, nevvero? Questo piccolo trucco è significativo, esprime difatti (simbolicamente) un trucco più grande, tanto da essere classificato come esistenziale: vuoi vivere bene, vuoi goderti la festa invece che subirla? Bene, concediti un costante autoinganno, una noce al giorno e l’autoinganno è servito. Arriverai alla fine del cenone sfatto, devastato, ma l’autoinganno ti farà pensare il contrario: non sei affatto devastato ma ubriaco di felicità, fracido di gioia: hai o non hai mangiato le noci prima? E allora non ingrasserai. E quando una settimana dopo la bilancia segnerà chili in più, invece di sfogliare il catalogo dei dietologi, preferirai, ancora autoingannandoti, prima della prossima festa, continuare a mangiare più noci. Meglio ignorare il peso, nel senso di massa grassa ma anche di massa esistenziale. Se i consigli non concordano con i fatti, allora tanto peggio per i consigli.
Imparare dalle feste è doloroso. Faccio per dire, invece di mangiare un paio di noci per non ingrassare, sarebbe meglio dimezzare le porzioni o le portate, ma capite che per vivere è necessaria una certa dose di incoscienza e di fiducia che la feste a venire non ci siano gravi, quindi torniamo a bomba: molto meglio autoingannarci che ammettere che il troppo storpia.

 

Prima della cena, mangio un paio di noci. Lo dicono i guru che per non ingrassare bastano un po’ di noci prima dell’abbuffata

                       

C’è qualche riflessione da fare anche riguardo al cibo, bene essenziale del cenone, nonché metafora della vita, e per quanto ci riguarda pure patrimonio dell’Unesco. Davanti alla tavola imbandita, seduti, pronti a mangiare, chiamando a gran voce la padrona di casa, imponendole di sedersi con noi, ignoriamo un’altra grande metafora: in questa parte del mondo dove siamo nati (ma c’è un miglioramento anche dove non siamo nati), il cibo è abbondante solo da 70 anni. Le festività natalizie e il cenone di Capodanno hanno sempre avuto un significato profondo per le comunità contadine italiane (qualcuno di tanto in tanto ce lo ricorda, come gli agronomi, cito a mo’ di esempio Francesco Marino, ma sono sconosciuti ai più). Non c’entra la nascita di Gesù (per chi ci crede) o l’inizio del nuovo anno, con tutte quelle promesse che sbandieriamo: i cenoni fino a qualche decennio fa erano un’occasione per reagire alle disuguaglianze sociali, economiche e religiose. Allora mangiavano quelli che provenivano dalle classi privilegiate, loro sì che facevano festa. I contadini (lo eravamo tutti) subivano la festa e usavano, pur essendo poveri, il cibo come simbolo di speranza e di resistenza alla festa dei ricchi.  Non per niente, la Chiesa imponeva sì l’astinenza e la penitenza, ma mentre i ricchi si concedevano festini sontuosi, i contadini dovevano pure rispettare il decimo comandamento: non desiderare la roba d’altri.

In questa parte del mondo il cibo è abbondante solo da 70 anni. Fino a qualche decennio fa i cenoni erano un modo per reagire alle disuguaglianze 

                        

L’avreste mai detto che il baccalà fosse una forma di resistenza silenziosa? Concentrati sull’abbellimento della tavola, abbiamo riflettuto sulle lenticchie? I semi della Vicia Lens ricordano una moneta, e i soldi fanno sperare in un futuro migliore, e chi dice il contrario è complice delle classi agiate che ti dicono di mangiare le noci prima dei carboidrati, pur di non dimezzare le porzioni. Per non parlare della polenta. Alcuni studi ci ricordano che il mito dei vampiri è associato al consumo di polenta. Il mais è povero di due amminoacidi essenziali, la licina e il triptofano, e se non mangiato in compagnia di altri cibi (i legumi, appunto) causava la pellagra, la famosa - e orribile - malattia delle tre D, demenza, diarrea, dermatite (endemica fino all’altro ieri in Europa). E infatti i malati di pellagra assomigliavano ai vampiri, bianchi, con le gengive sanguinanti, cadaverici, con seri problemi a sopportare la luce del sole, quindi si muovevano di notte, e  insomma questo cibo povero (da vampiri) assumeva un valore speciale durante le festività, unendo le famiglie. Pensa te. Ora, davanti a una tavola imbandita secondo i noti crismi, chi è quel pazzo che si metterebbe a ricordare il valore simbolico della polenta? La storia delle lenticchie? L’analisi dei costi e benefici dell’abbondanza? Sarebbe una perdita di tempo, la vita, come il cenone, va goduta appieno, senza rimpianti o pensieri pesanti. Visto che la superficialità e l’autoinganno sono il viatico migliore verso la felicità, ci mettiamo a ricordare i vampiri?

Non resta che far festa o subirla. Vivere festosamente, innamorandosi di tutto quello che passa davanti, giorno per giorno come se fosse l’ultimo: questo ci dice la tavola imbandita per l’ultimo dell’anno. Questo ci viene detto pure dagli ormai onnipresenti motivatori in veste di (presunti) saggi o guru. In genere ti spingono a pensare che di fronte a questa tavola così ben preparata (che è la vita), frutto di lavoro e di consigli certosini, come (il mio preferito): bisogna sì mangiare, ma ricordando chi non ha da mangiare, ecco, di fronte a questa tavola non si può rimanere indifferenti. Vivere è far festa, consumare con intensità l’istante e celebrare i propri desideri. 

La festa è come la vita, vivere è far festa, consumare con intensità l’istante e celebrare i propri desideri. Ma questo è estremamente difficile

               

Però questo pernicioso atteggiamento trascura tutto quello che sappiamo della vita e delle feste. Ignora che il compito del saggio o del guru, ammesso che esistano, non è quello di dirci, con falso spirito naif, che ogni momento è stato modellato per noi, quindi nuovo e senza precedenti, e che saremo considerati alla stregua dei pazzi qualora rifiutassimo la festa che viene, no! Il compito del saggio è farci accettare una verità: è proprio la nostra esperienza di ogni giorno che ci costringe ad accettare con tanta dignità e pazienza il fardello dell’amarezza che la festa e la vita portano con sé.

Invece, vivere con intensità il cenone, accogliere con sano spirito ottimista l’abbondanza, fare piani per il futuro sembra essere il modo di vivere la festa invece di subirla. Ma così si ignora che vivere ogni momento come se fosse l’ultimo è estremamente difficile, se non fortuito, e comunque non potrebbe mai funzionare come sistema stabile. Certo, di tanto in tanto, proprio perché avvertiamo la stanchezza del cenone, capitano momenti in cui i nostri sensi sembrano eccitati. Il nostro corpo, schiavo, esausto per la festa, viene liberato e gli occhi si dilatano a registrare con sgomento le luminarie della casa: allora ci sembra che il passato e futuro si fondano e il presente non diventa un ospite sgradito. Momenti così sono rari, ma il cenone dovrebbe farci capire che i guru di “ogni momento è buono per cogliere la vita”, sono in realtà dei dannati: costretti a rendere perfetto il presente. Un gioco a perdere, perché se c’è momento perfetto gli altri, per confronto, saranno sciupati sul nascere.

E poi, già a metà cenone, forse anche alla vista dei centrini fini in un angolo, dei bicchieri confusi, già a metà della cena – dicevamo – siamo ubriachi e non perché ci siamo lasciati andare, accogliendo la vita che si dipana, ma perché abbiamo capito di aver maturato aspettative che non si realizzeranno. Nutrito desideri che l’indomani, primo gennaio del nuovo anno, saranno delusi: certo, sarebbe un vero momento epifanico, molto costruttivo ma doloroso, quindi preferiamo bere e mangiare qualche noce prima dei carboidrati.

Dunque, invece di rinsavire, in genere allontaniamo la delusione con nuovi propositi e nuove feste, così, dimenticanza dopo dimenticanza, finisce che contaminiamo il piano di realtà, che poi è la sola dimensione che ci permette di vivere. La verità? La gioia di vivere che si manifesta durante una festa e la depressione sono gemelle – purtroppo non sono bastati i bei racconti di Fitzgerald per farci capire che dopo una festa perfetta non si costruisce nessuna felicità.

Durante il cenone, avete mai parlato con lo zio, la zia, il parente più o meno stretto, insomma quello che vi dice che quest’anno, per lei/lui è stato un anno bellissimo, perché è uscito dalla depressione e l’anno che verrà sarà ancora meglio, sarà infatti tre volte Natale? Avete mai ascoltato come parla della festa della sua vita, quando vi dice che ora ha una compagna/o bellissima/o, che si sono aperte nuove strade, tutte luccicanti? Nello stesso tempo, avete mai notato che nel preciso momento in cui il vostro parente sprizza gioia perché vive la festa e non la subisce, ha le spalle spioventi? Ha il tono della voce che non vi convince? Un sipario sugli occhi, qualcosa che non riesce a deglutire, tipo una lametta che ha ingoiato e sembra ferirlo a ogni respiro? Sì, ve ne accorgete eccome. Intuite anche il perché: è ancora depresso. E pensate che se ammettesse che non sta festeggiando la vita, ma la sta invece subendo, voi sareste disposti, qui e  ora, ad abbracciarlo e consolarlo: la festa è sempre brutale, esattamente come la vita, trasforma, da un momento all’altro, una tavola ben preparata in uno schifo. 

Però non lo facciamo, non vogliamo rovinarci la festa. Quindi, cosa vogliano dai cenoni? Cosa chiediamo agli esperti, ai saggi, ai guru, ai mistici? Chiediamo di allontanare dalla nostra tavola la disillusione. Che tuttavia è una forma di conoscenza sublime, perlomeno ci regala la distanza che passa tra i nostri sogni e la realtà. Ha tutto un suo repertorio di soddisfazioni e ci dona, nostro malgrado, una certa inquietudine. D’accordo, ci rende insoddisfatti, ma perlomeno capaci di sentire certe oscillazioni della vita, così sensuali. 

Il cenone dovrebbe insegnarci non come apparecchiare la tavola per la festa che viene, ma l’arte della disillusione, certo venata di pessimismo, ma questa forma di indagine ci fa uscire dall’ormai noto dualismo (o si fa festa, o la si subisce). La festa – dice il disilluso – è come la vita, una corda tesa, posta molto in basso che ci fa inciampare. La disillusione, tuttavia, non ci toglie il desiderio di rialzarci: del resto, se un bambino fosse sempre soddisfatto di gattonare, perché dovrebbe camminare sulle sue gambe?

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