Foto Quarticello Azienda Agricola (via Facebook) 

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Il vino è un patrimonio più del cibo

Camillo Langone

I ristoranti aprono e chiudono di continuo e se non chiudono cambiano gestione, mentre le cantine si trasmettono di generazione in generazione. Cosa bere durante le Feste se davvero si vuole bere patriottico

Sul vino come patrimonio, più qualche bottiglia da regalarsi per le feste. Che cosa sia precisamente questa benedetta cucina italiana divenuta patrimonio Unesco lo si può discutere e in effetti lo si discute tanto, vale a dire troppo: i canederli sono nostrani oppure austriaci? La carbonara è tutta romana o anche un pizzico americana? Gli spaghetti sono così tradizionali come si pretende? Una sequela di domande oziose, spesso nichiliste e disfattiste, e però la gastronomia è mobile davvero, basta distrarsi un attimo e una ricetta dell’Artusi non la vedi più, né al ristorante né a casa: è diventata archeologia. Mi è capitato più volte nel corso della vita. Che so, dov’è finita la minestra di pan grattato, la numero 12 del supremo ricettario? Nel posto in cui sono le nevi dell’altro anno, mi verrebbe da dire citando François Villon… Più lenta, più stabile, più intrinsecamente legata alla tradizione è l’enologia, se non altro perché le viti hanno le radici. I ristoranti aprono e chiudono, aprono e chiudono, aprono e chiudono, e se non chiudono cambiano gestione, mentre le cantine si trasmettono di generazione in generazione, di norma.

 

Il vino è patrimonio più del cibo: dal punto di vista genetico (il peculiare Dna delle viti), paesaggistico, immobiliare… Sulla definizione di vino italiano ritengo ci sia meno da opinare. Io non ho dubbi: chiamo vino italiano quanto ricavato da vitigni italiani allevati in Italia e vinificati con metodi italiani, cioè non francesi. So bene che esistono ancora gli amanti delle barrique e i sommelier, ma bastano le parole a sbugiardarli, questi francofoni e francofili, peraltro abbastanza giù di moda. Purtroppo continua ad avanzare la mala pianta dei bevitori di champagne, nemici della patria, dilapidatori dell’enologica eredità. Per fortuna adesso abbiamo l’Unesco come alleato: a una cucina nazionale che proprio in quanto tale è divenuta patrimonio mondiale non puoi certo abbinare vini senza luogo, sradicati e sradicanti, chardonnay, cabernet… Si chiama logica e non c’è bisogno di studiare Aristotele per arrivarci. Lo champagne, che di regola è un vino addizionato e dovrebbe bastare questa informazione per starne lontani, rappresenta un mito per provinciali complessati, consumatori patetici e tuttavia non innocui: colpa loro se, appena fuori dal borgo pittoresco, al posto della vecchia vigna di moscato oggi si staglia un palazzone. Se mangiare è un atto politico, bere è un atto urbanistico: stappando il vino della tua zona salvi il paesaggio della tua zona. (segue a pagina quattro)

Essendo leggermente sadico ho goduto molto quando ho letto del milione e mezzo di bottiglie false di champagne commercializzate da un francese accusato di frode. Io al massimo lo avrei dichiarato colpevole di circonvenzione d’incapace, di colui che, ottuso champagnomane, anziché con la bocca beve con gli occhi: uno che si beve l’etichetta.

Dicevo del patrimonio. L’Italia possiede la più grande ricchezza ampelografica del pianeta, oltre 500 vitigni autoctoni. Che patriota sei se non lo sai e se non bevi di conseguenza? Alcuni di questi sono i vitigni domestici più antichi che esistano, discendenti dalla vite selvatica presente nelle foreste vergini. Appartengono quasi tutti alla famiglia dei Lambruschi e il più preistorico, precedente alle clave, è il Lambrusco Salamino. I nomi, mi chiedono sempre di fare i nomi. E io comincio a divagare, perché tanto i Lambruschi sublimi, quelli rifermentati in bottiglia, nemmeno fra Bologna e Parma sono facili da trovare, figuriamoci altrove. Sotto Natale provo a essere più buono ed ecco la dritta: Lambrusco Ferrando, azienda Quarticello, Montecchio Emilia. Affidatevi a internet, magari ve lo porteranno i Magi. Leggermente più reperibile il Lambrusco del Fondatore, cantina Cleto Chiarli, un Sorbara che ho visto su certi scaffali verso Fidenza allo stupefacente prezzo di 7 euri e 90. Cercatelo e compratene un cartone. Un altro termine per indicare la rifermentazione in bottiglia è “metodo ancestrale”: come può un conservatore rimanere insensibile di fronte a simile aggettivo? Solo un dissipatore può snobbare tali nettari. Adesso mi è venuta voglia di segnalare vini ben più estremi, e me la faccio passare perché non voglio turbare troppo. Se il rosso frizzante chissà perché inquieta, ci si rivolga ai molti vini al contempo italiani e tranquilli: un Dolcetto piemontese, un Grechetto umbro (preferendo il bianco) o un Cerasuolo abruzzese raramente deludono. E sempre accrescono il patrimonio, sempre onorano i padri.

  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).