L'estate del vino fluido - 6
Un rosa trentino
La risposta a chi ancora difende l’enodualismo bianco/rosso è il Cremisi
Che uno poi potrebbe dire: ma se d’estate non sopporti il rosso ovunque servito caldo perché non bevi il bianco ovunque servito freddo? E io potrei rispondere: dopo studi annosi sono arrivato alla conclusione che se il rosso dev’essere buono il bianco dev’essere buonissimo.
Un rosso medio si può anche bere, se contro la finestra batte la tormenta (forse a Natale, dunque) e il piatto ospita una bella fumante salsiccia. In tal caso nel bicchiere ci trovi almeno un po’ di polpa, qualche piacere tattile, materico. Mentre nel bianco medio sento soltanto alcol e vuoto. Nei casi peggiori: alcol, vuoto e profumo. Nei casi peggiori ossia quando il vino è tratto da uve aromatiche e ne parlo con fresco disgusto, perché mi sono capitate in casa non so quante bottiglie contenenti malvasia. Di cantine e zone diverse, ma pur sempre contenenti malvasia. Finite per dispetto sulla mia tavola di odiatore dei vini aromatici. Scrupoloso come sono mi è toccato stapparle: metti che fra loro ci fosse un’eccezione come fu la Malvasia istriana prodotta in Istria da Giorgio Clai... Macché, nessuna eccezione stavolta, i miracoli sono rarissimi.
C’è di peggio di simili vini giallastri e odorosi? Certo che c’è di peggio della malvasia, di ancor più nauseabondo: il Gewürztraminer, il Müller-Thurgau... Ma la vita è breve e non ho tempo di studiare le gradazioni del pessimo. E allora per concludere questa estate del vino fluido ritorno, senza rimorsi, al rosa.
Contro i fanatici del dualismo bianco/rosso non mi stanco di bere e propugnare il colore terzo. Contro i semplicioni che riducono il vino a due sole opzioni perché la loro mente non riesce a contemplare la complessità. Come scrive Alain Finkielkraut, “l’infanzia e l’adolescenza sono per eccellenza i periodi del semplicismo e dell’estasi manichea”. Chi si rifiuta di bere rosa è rimasto bloccato allo stadio dello stadio, ossia del tifo. Io che non tengo per nessuno e che mi vanto di essere ecumenico (a imitazione se non di Cristo, di sant’Ippolito: “L’auriga che gareggia, smetta o sia rimandato”) ho parlato di rosa veneti, di rosa pugliesi, di rosa romagnoli, di rosa abruzzesi e avrei dovuto parlare anche, da nord a sud, di rosa piemontesi (mio preferito: l’Infernot di cascina Boccaccio da uve dolcetto), di rosa calabresi (mio preferito: il Cirò di Scala da uve gaglioppo)...
Non ho parlato di un rosa talmente anomalo che nemmeno io so dove collocarlo, il Cremisi zero infinito di Pojer e Sandri (Faedo, TN), non derivante da uve autoctone come tutti gli altri vini sul mio patriottico scaffale ma nemmeno dalle solite, dozzinali uve alloctone, con un colore che non sembra vino ma succo d’arancia, fresco e dissetante come un gin and orange ma senza gin e senza orange, un vertice mondiale dell’enologia, dell’agronomia e della tecnologia di cantina, un nettare frizzante che trascende il vino e il Trentino e se non l’hai bevuto sei un bevitore novecentesco, indietro minimo di trent’anni, sappilo.
Oltre il Cremisi oggi non si può andare. Dunque scarto di lato e chiudo la serie sul vino non binario aprendo un sangiovese chinato, il Michelangiolo di Calonga (ovviamente soggiornava in frigo ma stavolta i fissati della temperatura ambiente non credo avranno da starnazzare). Sebbene al palato risulti parecchio denso è alquanto fluido dal punto di vista concettuale: non è esattamente dolce ma non è nemmeno secco, non è soltanto vino ma non è propriamente un vermouth, è agricolo (il sangiovese forlivese della famiglia Baravelli) e al contempo alchemico (la china e gli altri esotismi di Baldo Baldinini)... E’ un aperitivo e un dopocena, è un raffinato piacere di Romagna, per citare Davide Rondoni è “quasi un paradiso” ed è il mio saluto all’amico lettore, il mio miglior augurio per l’estate che lentamente finisce e l’autunno che lentamente viene.
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