Photo by Caroline Attwood on Unsplash 

il gastronomo disperato - 4

Aceto balsamico e piatti quadrati, basta! Via da questi ristoranti italiani

Camillo Langone

Nello sconforto per la bassezza della nostra ristorazione, ecco sette piaghe gastronomiche che hanno rattristato, ancora una volta, questa estate: dal trito di prezzemolo come forfora all'autoritarismo del menù degustazione

Lo so bene che dopo tre puntate di alti lai ci vorrebbe la pars construens, ma il gastronomo disperato non è disperato per finta, sono troppe settimane che non trova un cuoco, un ristoratore, un oste, un vinattiere, un caffettiere, un barista capace di riconciliarlo con le rispettive categorie. Stufo di mangiare a casa così come di avvalersi della ristorazione italiana per la sconfortante bassezza della medesima, oggi, fuochi di artificio di fine agosto e di fine serie, mi scaglio contro non una ma sette piaghe gastronomiche colpevoli di avere rattristato la mia estate:

 

 

1) le strisce marroni, fatte colare su pietanze di ogni sorta da cuochi che si sentono Jackson Pollock ma non sono nemmeno Vauro, dripping che vorrebbe sembrare riduzione di aceto balsamico se non fosse che la riduzione di vero aceto balsamico se la può permettere soltanto Alain Ducasse, e nessuno di loro è nemmeno Alessandro Borghese e dunque le colature somigliano più che altro a diarrea di bimbo (in conclusione: usare piatti puliti!);

2) il trito di prezzemolo o altre erbette che imbratta, a mo’ di forfora verde, tese e cavità dei piatti sia piani che fondi, sia contenenti primi che secondi, e non sai come toglierlo, forse ci vorrebbe una spazzola come per la forfora bianca sulla giacca blu (la morale è sempre quella: usare piatti puliti!);

3) la cucina della nonna, o meglio: la presunta cucina della nonna, siccome l’antenata viene evocata a sproposito da ristoratori senza memoria o senza vergogna che servono astici, aragoste, salmoni, crostacei e pesci che, ne sono certo pur senza averla mai conosciuta, la nonna non utilizzava mai (comandamento: non nominare la nonna invano);

4) i piatti quadrati, rettangolari, romboidali, trapezoidali, a onda, a lapide, a tegola, perché come moda è vecchissima, come forma è disfunzionale, come immagine è ostile, appena li vedo sento l’angolo più vicino pungermi il costato (memento: ottimo è il tondo, erotico e accogliente);

5) la puccia pugliese che innanzitutto non è pugliese ma casomai salentina, tant’è vero che io pur essendo di casa in Puglia non l’ho mangiata mai, di più, non l’ho vista mai, la vedono solo i turisti che per il cibo-spazzatura hanno un fiuto da segugi e per accontentare i quali simile amidacea preparazione viene ormai ammannita in ogni anfratto di Terra di Bari (dritte: di barese mangiare la tagliatella di seppia, di otrantino le ostriche rosse);

6) le acciughe del Cantabrico che cattive non sono e però di mari a questo mondo ce ne sono tanti, vorrei fosse data una speranza a tutti e non vorrei che le alici di Adriatico e Tirreno finissero ingloriosamente nel cibo per gatti (domanda: che fine hanno fatto le già celebratissime alici di Cetara?);

7) le stelle Michelin in quanto vengono assegnate, di regola, a caserme per benestanti masochisti, signori bramosi di cenare in stanzoni algidi governati da cuochi autonominatisi chef ossia capi ossia caporali ossia militari, a volte così autoritari da imporre menù degustazione ovvero menù fisso (segnarselo: chi mangia alla carta si sta facendo servire, chi accetta il menù sta servendo lui il cuoco).

 

 

Di più su questi argomenti:
  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).