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Il gelato italiano prospera anche se sette negozi Grom chiudono i battenti

Carlo Stagnaro

L’annuncio della chiusura di sette punti vendita (su 46) offre l’ennesima occasione per esprimere nostalgia per i bei tempi andati e rancore contro i demoni del mercato

Grom è come Rossella O’Hara: “Non era bella, ma gli uomini che ne subivano il fascino di rado se ne rendevano conto”. Così, l’annuncio della chiusura di sette punti vendita (su 46, ma nel 2015 erano 67) offre l’ennesima occasione per esprimere nostalgia per i bei tempi andati e rancore contro i demoni del mercato. Ecco, mettiamo le cose nella giusta prospettiva: Grom, di artigianale, ha giusto le origini, nel negozio di piazza Paleocapa aperto a Torino nel 2003 per iniziativa di Guido Martinetti e Federico Grom. La sua crescita – che culmina nella cessione a Unilever – è debitrice proprio della progressiva emancipazione dalla dimensione artigianale, grazie a cui (come evidenziato in uno studio dell’Istituto Bruno Leoni lo scorso anno) si è trascinata dietro intere filiere agricole locali. Un altro driver di crescita è lo straordinario talento comunicativo dei suoi fondatori, grazie al quale è più ricercata per il brand che per la prelibatezza dei suoi preparati. Il gelato Grom proviene da un unico stabilimento centralizzato, nel quale affluiscono ingredienti Slow Food. Insomma, il gelato Grom può fregiarsi del marchio del chilometro zero – tanto caro al suo santo patrono Carlin Petrini – in Piemonte dove viene composto: non nelle decine di gelaterie in cui è spedito in Italia e all’estero. L’abuso della definizione di gelato artigianale era talmente sfacciato che sul tema l’azienda è persino riuscita a perdere una causa contro il Codacons.

  

La progressiva riduzione della rete di vendita è anche figlia di un graduale riposizionamento, dai negozi agli scaffali dei supermercati, coerente con la qualità percepita del prodotto. Come ogni chiusura, anche quella degli esercizi Grom non è indolore, sebbene Unilever si sia impegnata a ricollocare i dipendenti. Tuttavia, trarne un messaggio generale sarebbe più scorretto che ardito. Anche perché il comparto del gelato, in Italia, va alla grande. Con 435 milioni di litri nel 2018, siamo il terzo produttore europeo dopo Germania e Francia: ma tale dato probabilmente sottostima la realtà, perché verosimilmente trascura gran parte della produzione artigianale vera e propria. Il fatturato italiano del gelato è stimato in circa 2,7 miliardi di euro (su circa nove a livello europeo). Nel nostro paese è venduto in 39 mila esercizi, di cui 10 mila gelaterie pure e 29 mila bar e pasticcerie, oltre naturalmente alla grande distribuzione.

Con questi numeri, sette (o perfino settanta volte sette) gelaterie rappresentano un cambiamento tutto sommato modesto. Insomma, senza scadere nella “gromofobia”, bisogna ammettere che le difficoltà non dipendono da una contrazione generale del mercato o dalla concorrenza internazionale, ma dalla competizione più agguerrita del gelato artigianale vero e proprio. Diventa quindi doppiamente bizzarro il tentativo di innestare sull’annuncio di Unilever una campagna di orgoglio nazionale. Per esempio, l’ex ministro Lorenzo Fioramonti ha twittato indignato che “Chiudere gelaterie è non solo sbagliato culturalmente, ma anche un errore strategico in una fase in cui grande distribuzione sarà sempre più sfidata da economie locali intelligenti”. Non è ben chiaro in cosa consista l’errore culturale, se le gelaterie non producono ricavi sufficienti a coprire i costi. Ma è ancora più curioso che l’uomo che voleva tassare le merendine, si intesti oggi la battaglia per il gelato industriale. C’è, infine, un ultimo punto: la rappresentazione della fine (o del ridimensionamento) di un’iniziativa imprenditoriale come un’onta personale e una sconfitta per l’intero paese. Non è così. Il fallimento è il meccanismo attraverso cui il mercato provvede a riallocare i fattori della produzione verso utilizzi più efficienti; ed è normalmente conseguenza del fatto che i consumatori non gradiscono i prodotti offerti, o non sono disposti a pagare il prezzo richiesto. Nell’augurare lunga vita a Grom, gli italiani dovrebbero tuttavia interessarsi un po’ meno delle imprese che chiudono, e interrogarsi su come creare le condizioni perché altre nascano e prosperino.

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