Niente cortei in piazza, nessun intellettuale indignato. Per i cristiani massacrati c'è solo il silenzio
Anche nella Chiesa si tende a minimizzare, a derubricare il tutto a "effetto collaterale". Le ragioni sarebbero la crisi climatica, i conflitti sociali
Nel fine settimana le piazze italiane erano invase da manifestazioni in occasione della giornata contro la violenza sulle donne. Nei giorni scorsi si è manifestato per Gaza o, meglio, contro Israele. Si manifesta per tutto, tranne che per i cristiani perseguitati
Roma. “Quale sarebbe la nostra reazione se duecento bambini di una scuola cattolica fossero rapiti a Minneapolis, Chicago, New York o in qualsiasi altra città americana?”, s’è chiesto (e ha chiesto) sui social network mons. Robert Barron, il vescovo più mediatico d’America, finito anche nella top-ten dei pretendenti alla presidenza della Conferenza episcopale degli Stati Uniti. I bambini rapiti, nella scuola nigeriana di St.Mary, sono in realtà 303, cui vanno aggiunti dodici insegnanti. Moltissimi sono riusciti, non si sa come, a scappare e a salvarsi, mentre uomini armati facevano razzia di ragazzini tra i dodici e i diciassette anni. Nella notte tra venerdì e sabato scorsi, un gruppetto è riuscito a tornare a casa. La risposta alla domanda del vescovo americano è evidente: il silenzio. Nel fine settimana le piazze italiane erano invase da manifestazioni – comprese gare podistiche – in occasione della giornata contro la violenza sulle donne: giovani e meno giovani con cartelli, cantando slogan e segnandosi il volto con un tratto rosso. Lo si è visto perfino durante le partite di Serie A. Nei giorni scorsi si è manifestato per Gaza o, meglio, contro Israele, a Bologna. Con tanto di pietre lanciate contro le Forze dell’ordine e il solito côté di feriti e devastazioni. Greta Thunberg e i suoi amici coloravano di verde il Canal Grande, a Venezia, protestando contro l’ecocidio. Si manifesta per tutto, nelle città d’occidente. Ogni causa è buona per denunciare soprusi e vergogne. Si manifesta per tutto tranne che per i cristiani, perseguitati “più che nei primi secoli”, come da efficace definizione bergogliana.
Da anni, nell’Africa subsahariana, i cristiani sono macellati. Raid continui, case e chiese date alle fiamme, migliaia di uomini e donne e bambini rapiti. Nigeria, Burkina Faso, Sudan e ancora più giù, in Mozambico. L’elenco l’ha fatto il Papa, all’Angelus di due domeniche fa, mettendo nella lista pure il Bangladesh, in Asia orientale. Da anni, rapporti indipendenti testimoniano quanto avviene con la freddezza e sinteticità dei numeri, che aumentano di mese in mese, allargando la mappa della persecuzione. Cifre che surclassano quelle annotate un decennio fa nel vicino oriente, quando le milizie califfali segnavano le case dei cristiani con la “N” di nazareno ponendo gli inquilini davanti al dilemma: convertirsi o andarsene, senza nulla. Allora, un moto d’indignazione mondiale si vide, forse non tanto per il destino che attendeva i cristiani della Mesopotamia quanto per il terrore che l’avanzata terroristica dei ceffi neri di Abu Bakr al Baghdad potesse compromettere le passeggiate sul lungomare delle città europee, la serenità di una cena in ristorante, qualche viaggio in treno o aereo. Ma l’Africa, e per di più quella a sud del deserto, è lontana. Non è mica Gaza. Quindi niente appelli di attempate star della tv contro il massacro, niente intellettuali coltissimi a scuotere le coscienze intorpidite, niente cantanti in lacrime a chiedere un sussulto degli spiriti distratti per porre fine a quanto accade. Niente di niente, figurarsi manifestazioni in strada. Il massimo in cui si può sperare è qualche monumento illuminato, magari di rosso sangue, così fa più effetto.
Gli esperti guardano i numeri e contestualizzano: è vero, i cristiani sono colpiti ma bisogna chiarire le cause. Non è una pulizia etnica, men che meno – sia mai – una guerra di religione: è un conflitto “sociale”, ci sono i pastori fulani (musulmani) che a causa della crisi climatica sono rimasti senza terra. Si spostano e cercano di accaparrarsi i pascoli dei contadini più a sud (che sono cristiani). Da qui, inevitabile, lo scontro. Nessuno nega che una delle cause – una – abbia a che fare con le risorse. Il fatto è che, come ha detto il vescovo ausiliare di Maiduguri, mons. John Bakeni, “mentre il conflitto non riguarda solo la religione, è altrettanto semplicistico non vedere la dimensione religiosa come un fattore significativamente esacerbante, soprattutto quando chiese, sacerdoti e altri potenti simboli del cristianesimo vengono attaccati, apparentemente impunemente”. Per la cronaca, Aiuto alla Chiesa che soffre stima che tra il 2009 e oggi nella sola diocesi di Maiduguri i cristiani assassinati siano all’incirca cinquemila. “Dobbiamo essere coraggiosi e avere il coraggio delle nostre convinzioni per dire, mentre le cause sono complesse, il cambiamento climatico non ha mai rapito le ragazze di Chibok, ucciso sacerdoti o bruciato chiese”, aggiungeva il presule.
Eppure, anche nella Chiesa si preferisce contestualizzare, ridurre, sempre nel timore di non creare – e crearsi – problemi, di non irritare o turbare. Quindi, ecco precisare che muoiono anche tanti musulmani, forse in numero maggiore ai cristiani. E chi ha mai sostenuto il contrario? Il problema non è certo la conta. Non è che non c’è persecuzione se il numero degli sgozzati cristiani è – forse – inferiore di qualche unità rispetto ai fedeli all’islam. Si insiste sul dialogo, necessario come non mai. Ma volere il dialogo, e cercarlo, non può portare a derubricare le stragi e i rapimenti a effetti collaterali di un “conflitto sociale” in cui la religione non c’entrerebbe. C’entra eccome e basterebbe soffermarsi sull’ultimo rapporto di Acs – presentato dallo stesso cardinale segretario di stato – per accorgersi che se è vero che a giocare un ruolo sempre più rilevante nella radicalizzazione islamista “ci sono l’esclusione sociale sistemica, la riduzione delle tradizionali rotte pastorali a causa della crescita demografica e del cambiamento climatico, i conflitti agrari con le popolazioni sedentarie per l’accesso a terra e acqua, la stigmatizzazione etnica e le violenze da parte delle forze statali o di milizie locali”, è altrettanto assodato che quanto si vede in Nigeria ha assunto i connotati di una “campagna di pulizia etnica e religiosa”, anche perché “la maggior parte delle vittime nei conflitti con i fulani è cristiana, e le aree colpite coincidono in larga parte con quelle che in passato hanno resistito all’espansione islamica del XIX secolo”. Ha scritto il Daily Telegraph: “L’Osservatorio per la libertà religiosa in Africa sostiene che la violenza etnica abbia ‘alterato il panorama demografico della cintura centrale della Nigeria’, e che tra l’ottobre 2019 e il settembre 2024 i cristiani in alcuni stati ‘siano stati uccisi a un tasso 5,2 volte superiore rispetto ai musulmani, in relazione alla loro dimensione demografica’. Forse i cristiani sono stati scacciati non tanto perché cristiani quanto perché si trovano sulla traiettoria degli attacchi, ma il risultato non cambia: una forma di pulizia etnica.