Newman, il santo dottore che unì tradizione e modernità
Osteggiato, calunniato e dimenticato, fu riscoperto dal Concilio Vaticano II, che però non lo citò mai. Oggi Leone XIV lo proclama Doctor Ecclesiae
“L’attualità di Newman? I santi sono spesso profeti. Studiando la sua vita drammatica, ci si accorge che ha anticipato molte sfide del nostro tempo”, dice il prof. Hermann Geissler, direttore del Centro internazionale degli Amici di Newman a Roma
“La sua era un’autentica visione spirituale, in grado di accorgersi di tutte le debolezze presenti nel tessuto umano della Chiesa, ma ugualmente certa della sua percezione del mistero nascosto oltre il nostro sguardo materiale”. (Giovanni Paolo II)
Oggi, festa di Ognissanti, in occasione della messa per il Giubileo del mondo educativo, il Papa proclamerà John Henry Newman dottore della Chiesa e co-patrono della missione educativa della Chiesa stessa. Beatificato da Benedetto XVI e canonizzato da Francesco, ora è Leone XIV a mettere il supremo sigillo su questo studioso d’epoca vittoriana dalla vita travagliata, dotto tra i più dotti, passato al cattolicesimo quando era il nome più in vista della Chiesa d’Inghilterra, e per questo abbandonato da tutti, ritenuto essere pietra dello scandalo. La sua influenza fu decisiva per generazioni di intellettuali, direttamente o indirettamente: Tolkien e Chesterton i più celebri. Ma se nell’antica famiglia anglicana il risentimento nei suoi confronti fu inscalfibile, non è che nel mondo cattolico sia andata meglio, nonostante la porpora che Leone XIII gli conferì nel 1879, con buona parte della Chiesa romana che dubitava circa l’opportunità di tale creazione cardinalizia. Solo in pieno Novecento, e con il Vaticano II, il suo nome tornò alla ribalta. E con il suo nome pure le sue idee, dimostrando che il vecchio animatore del Movimento di Oxford fu un novello precursore, cambiando l’esistenza di tanti che lo incontrarono nei suoi scritti o nello studiarne la vicenda umana. Disse Benedetto XVI nella veglia di preghiera per la sua beatificazione, il 18 settembre del 2010 a Hyde Park, che “Newman ha avuto da tanto tempo un influsso importante nella mia vita e nel mio pensiero, come lo è stato per moltissime persone al di là di queste isole. Il dramma della vita di Newman ci invita a esaminare le nostre vite, a vederle nel contesto del vasto orizzonte del piano di Dio, e a crescere in comunione con la Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo: la Chiesa degli apostoli, la Chiesa dei martiri, la Chiesa dei santi, la Chiesa che Newman amò e alla cui missione consacrò la propria intera esistenza”. John Henry Newman che, per dirla con Papa Prevost, “contribuì in maniera decisiva al rinnovamento della teologia e alla comprensione della dottrina cristiana nel suo sviluppo”.
Ma cosa ha da dire, questo teologo e filosofo ottocentesco, a noi uomini del 2025? La domanda provocatoria la poniamo al professor Hermann Geissler, direttore del Centro internazionale degli Amici di Newman a Roma, docente in vari istituti teologici, massimo esperto del nuovo dottore della Chiesa (“Coscienza e verità negli scritti del cardinale John Henry Newman” è il tema della sua tesi di dottorato in teologia, tanto per capire il contesto). Ha scritto per Cantagalli John Henry Newman. Un nuovo dottore della Chiesa?, una sorta di guida alla scoperta del santo inglese accessibile anche a chi non ha tutti gli strumenti a disposizione per entrare nella sua non facile grammatica. La risposta è immediata: “I santi sono spesso profeti. Quando uno legge e studia un po’ la vita di Newman si accorge subito che lui ha davvero vissuto una vita traumatica e ha anticipato molte delle sfide del nostro tempo. E’ stato un grande ricercatore della Verità. Dopo la sua prima conversione all’età di quindici anni, quando ha capito che Dio veramente esiste, ha compreso che Dio è la realtà più importante che c’è. Aveva questa forte percezione della realtà di Dio e l’ha cercato con tutto il cuore, incontrandolo dentro di sé, nella sua coscienza. Questo, secondo me, mostra che lui in qualche modo ha superato la sfida della modernità”.
In che senso? “Cosa fa la modernità? La modernità mette al centro il proprio io e l’uomo si chiude in sé stesso. Perde il contatto con Dio ma anche con l’altro. Un segno della modernità è proprio l’individualismo. Newman supera questa dialettica, questa opposizione tra io e Dio, tra io e tu, scoprendo Dio nel suo cuore, ‘nella sua coscienza’, come dirà più tardi. E’ molto interessante: lui interpreta la coscienza, che non è la voce del proprio io, come per l’uomo di oggi. Ai nostri tempi, se uno dice ‘scelgo la mia coscienza’, intende la volontà di fare ciò che vuole. Newman dice che questo è l’opposto della coscienza; la coscienza dice all’uomo non ciò che vuoi tu, ma ciò che vuole Dio. La coscienza è l’eco della voce di Dio, perché lui stesso ha fatto questa esperienza, ha sentito questa voce. Anche con tanta sofferenza”. Da qui, spiega Geissler, “ha cercato di seguire questa voce, diventando pastore anglicano e nella preparazione all’ordinazione diaconale ha compiuto una seconda conversione che potremmo definire ‘ecclesiale’. Ha capito che se si vuole seguire questo Dio scoperto nel proprio cuore, bisogna servire l’altro. Solo se amo l’altro posso amare anche Dio, solo se servo l’altro posso servire Dio. Newman ha scoperto la dimensione ecclesiale e pastorale della sua vocazione e scrive nel suo diario queste parole forti: ‘D’ora in poi ho responsabilità per le anime, fino al giorno della mia morte’. Si può dire che abbia capito l’importanza della paternità spirituale, un’altra dimensione molto importante oggi. La gente cerca nella Chiesa un padre spirituale, qualcuno che la guidi nel suo cammino, nelle difficoltà, nelle sfide. Newman voleva essere un padre spirituale, l’ha fatto in tanti modi, con gli studenti, con i suoi parrocchiani, con i semplici operai che seguiva”. Poi? “Poi ha scoperto i Padri della Chiesa, quando aveva meno di trent’anni. Ha cominciato a leggere i Padri in modo sistematico, li ha letti proprio tutti. Conosceva già buona parte della Scrittura a memoria, quindi passò ai Padri della Chiesa: più tardi dirà che sono stati loro a farlo cattolico”. In seguito fondò con alcuni amici il Movimento di Oxford: “Sì, e disse che l’anglicanesimo e la Chiesa d’Inghilterra avevano perso la fede”.
Anche qui il discorso non sembra troppo distante da certi ragionamenti a noi contemporanei. “Newman – dice il prof. Geissler, che dal 1993 al 2019 ha lavorato presso l’allora congregazione per la Dottrina della fede – sosteneva che ci volesse una seconda Riforma che partisse dai Padri, dalla Chiesa degli inizi, dalla freschezza della fede dei primi secoli. Su questo si diede a un’intesa attività di predicazione con i suoi amici, pubblicando i Tracts for the Times, piccoli trattati su temi di attualità: ha cercato di riportare dentro l’anglicanesimo il patrimonio cattolico che ha scoperto nei Padri della Chiesa, ha voluto ‘cattolicizzare’ la Chiesa anglicana, se vogliamo dire così. Poi però ha capito che ciò non era possibile, ha tentato anche di porre l’anglicanesimo su un fondamento un po’ più sicuro, perché lui era convinto che mentre i protestanti avevano perso per strada alcuni elementi del patrimonio originale e i cattolici avevano aggiunto altri elementi quali ad esempio la devozione mariana, i santi, la preghiera per i defunti, la devozione al Papa, gli anglicani avessero invece trovato la ‘via media’, una posizione per così dire di equilibrio”. Però… “Però, da grande studioso della Storia, scoprì che nel quarto secolo c’era già stata una via media tra i cattolici e gli ariani: c’erano i semi ariani, per esempio. Si è molto spaventato, e per la prima volta che ha capito che forse i cattolici, alla fine, avevano ragione”.
Ma chi era Newman? Qualcuno lo definisce un tradizionalista, altri dicono che fosse un uomo aperto alle idee nuove. Per diversi osservatori è stato precursore addirittura del Concilio Vaticano II. “Per capirlo bisogna raccontare la sua storia. Il suo ultimo trattato è un tentativo di interpretare i trentanove articoli del fondamento dell’anglicanesimo in chiave cattolica. Questo trattato è stato condannato dall’Università di Oxford che tollerava tutto, ma non che qualcuno potesse avere pensieri cattolici. Questo era proibito. Anche i vescovi anglicani lo abbandonarono. Quindi si ritirò a Littlemore dedicandosi solo allo studio, alla preghiera, al digiuno e alla ricerca della verità. E vengo alla domanda, perché è qui, in questa fase della sua vita, che scrive sullo sviluppo della dottrina. Si interroga se le aggiunte cattoliche siano veramente deviazioni e corruzioni – come lui stesso inizialmente pensava – del patrimonio originale. Come spiegarle? Forse, si disse, si tratta di sviluppi organici che come un albero con i suoi rami cresce e matura nel tempo. Alla fine di questo periodo di studio comprende che è davvero così: non si tratta di corruzioni, ma di sviluppi organici. Chiariamo una cosa: Newman sa che bisogna discernere fra sviluppi veri e sviluppi falsi, e a questo scopo propose i sette criteri di discernimento fra sviluppi autentici e corruzioni. Lui ha riportato all’interno della Chiesa anglicana la dimensione della Storia, una novità assoluta. Newman fu un pensatore assolutamente moderno, assolutamente all’avanguardia, un precursore della nouvelle theologie, se si vuole. Non fu un pensatore scolastico, benché naturalmente avesse stima per san Tommaso. Lui partiva sempre dalla Scrittura, dai Padri della Chiesa. Era moderno fino al punto che a Roma i sui scritti sullo sviluppo della dottrina finivano all’Indice, in modo da silenziarlo”.
Ma a Roma c’era anche chi lo capiva, però. “Certamente, ebbe una lunga corrispondenza con padre Giovanni Perrone, teologo di Pio IX. Padre Perrone anche se non condivideva ogni pensiero di Newman, lo comprendeva. Soprattutto sul tema dello sviluppo della dottrina. Dopotutto, Perrone fu l’uomo incaricato di lavorare alla preparazione del dogma dell’Immacolata concezione e nel suo lavoro attinse non poco a Newman. Che era moderno anche per quanto scrisse sulla coscienza, cose che ai suoi tempi nessuno diceva. Pensiamo al celebre detto ‘io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa’: talvolta questa frase è stata interpretata come il fatto che si potrebbe pure dissentire dal Papa. In realtà, Newman intendeva dire solo che Dio ha messo dentro di noi la coscienza che ci spinge a scindere tra il bene e il male, sapendo che poi bisogna formare questa facoltà da noi ricevuta seguendo i genitori, i santi, la Chiesa, il Papa. Per lui il primato della coscienza e il primato del Papa non si oppongono. Lui ha superato l’opposizione della modernità tra io e Dio, tra coscienza e Chiesa, coscienza e autorità. E sì, è stato un precursore del Concilio Vaticano II. Pensiamo a ciò che il Concilio afferma sullo sviluppo della dottrina: siamo perfettamente dentro Dei Verbum, 8. Ma anche a ciò che viene detto sulla coscienza nella Gaudium et spes, 16… questi sono pensieri di Newman. Che è stato ben presente al Vaticano II, nonostante non sia stato mai citato. Era presente attraverso i grandi teologi che l’hanno riscoperto. Dopo la sua morte non è stato capito bene. Essendo all’avanguardia, non di rado i modernisti all’inizio del Novecento si richiamavano a lui. E’ stato scritto che il modernismo aveva le sue radici in Newman, con tutto quel che ne è conseguito. Ma era sbagliato affermare ciò, semplicemente perché non era vero”. Ma attraverso chi è stato riscoperto? “Finita la stagione dell’antimodernismo, il merito della sua riscoperta è stato di Guardini, Przywara, de Lubac, Congar, Ratzinger. Tutti questi teologi hanno capito che Newman era un genio del pensiero. L’hanno accolto e attraverso di loro è entrato nel Magistero della Chiesa”. Non a caso Ian Ker, considerato il più grande esperto del pensiero newmaniano, lo definì “padre del Concilio Vaticano II”. Già nel 1959, dopotutto, Giovanni XIII lo aveva citato nella sua prima enciclica, Ad Petri cathedram, evidenziandone il ruolo nella ricerca dell’unità dei cristiani. Il primo Papa a parlarne in maniera continua fu Paolo VI. In uno storico discorso del 1975 ai partecipanti del primo simposio sul cardinale Newman, Montini sottolineò che il filosofo e teologo inglese “diventa oggi un faro sempre più luminoso per tutti quelli che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione sicura attraverso le incertezze del mondo moderno, un mondo che egli stesso profeticamente aveva preveduto. Molti dei problemi che Newman affrontò con saggezza – anche se fu spesso mal compreso e male interpretato – sono stati l’oggetto del Concilio Vaticano II. Non solo il Concilio, ma anche il tempo presente può essere considerato in modo speciale l’ora di Newman”.
Newman è stato sicuramente un grande campione dell’alleanza tra fede e ragione, un binomio inscindibile che però in quest’epoca, la nostra, appare un po’ sfumato. Nella grande discussione pubblica contemporanea sembra che fede e ragione non possano stare assieme, anzi spesso si pensa che la ragione determini tutto e che la fede sia una superstizione o, nella migliore delle ipotesi, una consolazione. “Quello tra fede e ragione – dice Geissler – è un altro grande ponte che Newman ha costruito. Abbiamo già menzionato l’io e Dio, la coscienza e l’autorità, e bisogna citare anche fede e ragione. Newman ne ha parlato già nei suoi sermoni universitari, ma il suo capolavoro su questo tema è La grammatica dell’assenso, dove lui mostra come l’uomo dà un assenso alla verità. E’ un libro molto complesso ma al contempo molto interessante. Newman mostra che anche in ciò che noi chiamiamo ragione c’è la dimensione della fede. Nella ragione c’è una dimensione della fede e nella fede c’è la dimensione della ragione: la fede è ragionevole, è più difficile spiegare il mondo senza fede che con la fede. Come si può dire che il mondo ha inizio senza avere un creatore? E’ molto difficile. Io mi sono posto tante volte questa domanda, però è un interrogativo continuo, non c’è risposta. Newman direbbe che alla fine ci sono solo due opzioni: o c’è all’inizio un Creatore ragionevole che ha messo la ragione dentro la realtà, oppure tutto è irrazionale. Ma allora nulla avrebbe senso”.
Sull’Osservatore Romano, in un articolo firmato dal professor Luca Tuninetti, si è di recente scritto che l’eredità di Newman e la sua testimonianza sono ancora oggi materia di dibattito tra gli studiosi. Un Newman “continuamente costretto a difendersi dalle stesse accuse che tornano ripetutamente a ogni generazione”. Ma quali sono queste accuse? “Un passo indietro”, premette Hermann Geissler: “Personalità come Charles Kingsley – il grande accusatore di Newman, ndr – non capivano come una persona intelligente potesse diventare cattolica. I cattolici, in quell’Inghilterra, erano considerati infatti ai margini della società. Quindi Newman fu disprezzato anche pubblicamente. Vent’anni dopo la sua conversione, Kingsley scrisse un articolo sostenendo en passant che i preti cattolici sono bugiardi e l’esempio più noto è il dottor Newman. Quest’ultimo prese carta e penna, convinto che bisognasse sì difendersi da un’accusa così grave, ma che soprattutto si dovesse difendere il clero cattolico e la stessa Chiesa cattolica. Quindi in sole otto settimane stilò la Apologia pro vita sua. Ogni settimana veniva pubblicano un capitolo di questo testo, con un’eco straordinaria in Inghilterra. Era il primo libro scritto da un cattolico dai tempi di Enrico VIII che veniva letto dappertutto. Il risultato fu che i cattolici compresero che non c’era miglior difensore della propria causa di John Henry Newman e anche non pochi anglicani che con lui avevano rotto ogni rapporto iniziarono a comprenderlo. Non tanto la sua conversione, ma la sua onestà nel seguire la propria coscienza. E poi, tra l’altro, non potevano fare a meno di ammirare il suo splendido inglese”. In questo testo, “Newman racconta come si è sviluppato il suo pensiero, chi l’ha influenzato, cosa ha letto e cosa gli è rimasto da queste letture. In sostanza, rivela come è maturato il suo pensiero fino alla decisione in coscienza di dover diventare cattolico. E’, se vogliamo, una difesa della Chiesa cattolica in forma di testimonianza”. Ma ci sono davvero ancora discussioni su Newman? “A mio parere, no. Gli stessi anglicani hanno oggi una grande ammirazione per lui. Si pensi che l’ex arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, scrisse una lettera formale a Papa Francesco perorando la richiesta che Newman fosse proclamato dottore della Chiesa. E altrettanto fece l’arcivescovo di York”. In effetti, la notizia della sua proclamazione è stata accolta bene in ogni campo anche cattolico, e non è poco considerato che di questi tempi la Chiesa si divide fra tifoserie su ogni cosa… “Essendo un pensatore molto moderno ma totalmente inserito nella grande tradizione del cristianesimo, Newman ha la forza di unire. Lui riesce a tenere insieme poli diversi: in un mondo dove si tende a dividere, Newman dice che bisogna unire perché la fede è una”.
Tuttavia, al di là delle mere questioni teologiche, quando si parla del nuovo dottore della Chiesa e se ne ripercorre la biografia, si ricorda sempre il suo impegno per il laicato. Parlava cioè di laici impegnati e bene educati quanto a morale e fede. Il che era una cosa sorprendente per una società rigida come quella vittoriana. Anche oggi si parla molto di laicato, i Sinodi pubblicano continuamente documenti sul cosiddetto “laicato impegnato”. Ma oggi intendiamo il laicato alla stessa maniera di come l’intendeva Newman? “No. Newman aveva un grande rispetto per i laici e anche qui si dimostrava all’avanguardia, visto che ai suoi tempi la Chiesa era essenzialmente la Chiesa gerarchica. Dopo la conversione, scrisse molto sui laici, fino al punto da sostenere che andavano consultati in materia di dottrina. Passò qualche guaio, per questo: a Roma fu accusato sostanzialmente di essere eretico, ed è rimasto sotto questo sospetto per tre-quattro anni. In realtà, le sue idee sono di una ortodossia indiscutibile. Newman sostiene solo che la fede viene trasmessa non solo dai vescovi o dai teologi, ma anche dai fedeli laici. Una cosa che oggi nessuno contesterebbe. Portava l’esempio del Quarto secolo, quando la fede nella divinità di Gesù fu trasmessa più dai fedeli laici che dai vescovi, che in buona parte erano ariani. Stiamo parlando di un fatto storico. In sostanza, Newman riteneva che i laici fossero semplicemente i battezzati, cresimati e chiamati a vivere la fede nel contesto in cui si trovavano. Noi oggi per laicato intendiamo più gruppi organizzati, ma Newman non aveva in mente nulla di tutto ciò. Non pensava, per fare un esempio, all’Azione cattolica…”.
Alla fine della sua vita, san Newman descrisse il proprio lavoro come una lotta contro la tendenza crescente a considerare la religione un fatto puramente privato e soggettivo. Una questione riconducibile alle opinioni personali. Elemento peraltro messo in evidenza dallo stesso Ratzinger alla vigilia della beatificazione. Oggi, a più d’un secolo di distanza, si può dire che questa lotta sia ancora ben visibile nella nostra società? A giudizio del professor Geissler, “senza dubbio. Quando ricevette il biglietto che gli annunciava la creazione cardinalizia, Newman ripercorse la propria vita e disse che per mezzo secolo aveva combattuto il male peggiore che ci sia, il liberalismo nella religione. Vale a dire l’idea che la religione non sia una questione di verità, bensì di opinioni, di gusti, di sentimenti. Un fatto privato. Ed è un po’ l’idea che tutte le religioni in sostanza siano uguali, che siano tutte vie per giungere a Dio. E questo pensiero è diffuso anche all’interno della Chiesa, purtroppo. Papa Benedetto XVI aveva la stessa visione di Newman: ha parlato della dittatura del relativismo. L’uomo di oggi pensa che affermare che una religione sia quella vera significhi discriminare tutte le altre. Ma non è discriminazione: è constatare un fatto. E’ chiaro che le religioni sono la ricerca del mistero di Dio da parte degli uomini, ma Gesù è l’unica via verso il Padre, come afferma la Dominus Iesus. Chi predica questo? Chi ha il coraggio di dirlo? Se non lo diciamo, non si capisce più perché fare missione. A mio avviso, la debolezza nella missione in molti paesi ha qui la sua vera ragione, anche in Europa. Il rispetto per la persona di un’altra religione ci deve sempre essere, e questo è ovvio. Ma ciò non deve impedire di farci annunciare ciò che per noi è la verità. Questo è un punto molto importante: il Vaticano II l’ha detto, proprio nella Dignitatis humanae. Anche se pochi lo sanno. Lì si afferma subito che la religione vera è quella della Chiesa cattolica. Noi non dobbiamo rinunciare al nostro patrimonio, anche perché la Chiesa cattolica è sempre pronta a tendere la mano, a compiere il primo passo”.
Nel messaggio di Benedetto XVI del 2010 in occasione del Simposio organizzato dal Centro internazionale Amici di Newman, si sosteneva che “dopo la conversione, egli si lasciò guidare da due criteri fondamentali che manifestano appieno il primato di Dio nella sua vita. Il primo, ‘la santità piuttosto che la pace’, documenta la sua ferma volontà di aderire al Maestro interiore con la propria coscienza, di abbandonarsi fiduciosamente al Padre e di vivere nella fedeltà alla verità riconosciuta. Spieghiamo meglio questo riferimento alla santità piuttosto che alla pace? “Questa è una frase presa dal libro ‘La forza della verità’, che stava all’origine della sua conversione a quindici anni. Newman era sempre un uomo di pace: non voleva mai mettere la pace in secondo ordine, ma aveva capito che esiste anche una finta pace, una pace superficiale. La pace per lui aveva bisogno di un solido fondamento che può essere solo la Verità, la giustizia, l’amore e la santità. Se io cerco di vivere una vita santa, sono veramente uomo di pace”.
Newman ci ricorda anche che il progresso scientifico, se separato dalla dimensione etica e spirituale, rischia di smarrire il senso ultimo della verità e della dignità umana. “E’ l’ultimo capitolo della Apologia pro vita sua: la ragione umana, con tutta la sua capacità ha anche una forza che può spaventare. Newman dice che l’uomo può annientare se stesso, il pericolo del suicidio. Afferma che l’uomo non è solo ragione, ma è anche cuore. E’ l’unione della facoltà conoscitiva e di quella morale che unisce l’uomo nella persona umana. E ciò è assolutamente attuale: con la tecnica possiamo aiutare le persone, ad esempio possiamo superare il problema della fame nel mondo, ma al contempo far cadere una bomba atomica. La scienza, da sola, è ambigua. Ha bisogno di forza morale per essere guidata. Papa Benedetto tante volte ha affermato che scienza e morale devono andare assieme per il bene dell’uomo e dell’umanità. Proprio sulla linea di Newman”.