(foto EPA/Marian Zubrzycki) 

la guerra polacca

Cancellare Wojtyla

Un libro e poi un'inchiesta televisiva con la solita accusa: quand'era arcivescovo di Cracovia, non ha rimosso alcuni preti pedofili. Le cose stanno proprio così? No

Matteo Matzuzzi

Diciotto anni fa, milioni di polacchi accorrevano a Roma invocando Giovanni Paolo II “santo subito”. Oggi, nella sua terra, se ne imbrattano le statue. Una guerra culturale e politica che sta lacerando un’intera società    

La data non l’hanno scelta a caso: il 2 aprile, diciottesimo anniversario della morte di Giovanni Paolo II. All’alba di quella ricorrenza, quanti andavano alla cattedrale di Lódz per assistere alla messa o per pregare in silenziosa solitudine, si sono ritrovati davanti la statua del Papa “santo subito” imbrattata di vernice rossa e gialla. Una scritta sola, “Maxima culpa”, che poi è il titolo del libro confezionato dal giornalista olandese Ekke Overbeek e pubblicato il mese scorso. Tesi: Giovanni Paolo II sapeva della piaga degli abusi sui minori e non ha fatto niente per arginarla. E lo sapeva ben prima di essere eletto Papa, nell’autunno del 1978. A Cracovia, quand’era arcivescovo, trasferì due sacerdoti accusati di pedofilia, ma non li denunciò alle autorità civili. Intanto, il 6 marzo, a preparare il campo ci aveva pensato un’inchiesta del network privato TVN24. Medesimo canovaccio: Karol Wojtyla non ha fatto nulla per combattere gli abusi. O meglio, ha fatto quel che all’epoca era la prassi: si prendevano i sospettati e si trasferivano, di parrocchia o d’incarico. L’indagine è fatta bene, il giornalista Marcin Gutowski fa immergere il telespettatore nel clima plumbeo della Polonia degli anni Sessanta, stato vassallo dell’Impero sovietico, con la Chiesa perseguitata (dettaglio, questo, non messo molto in mostra nel prodotto televisivo) con maggiore o minore forza a seconda dei momenti e delle contingenze politiche. 

 

Nella Polonia degli anni Venti del Duemila, con lo spettro putiniano ai confini orientali e un clima che ha riportato l’Europa indietro di un secolo, la posta in palio nel discorso politico è Giovanni Paolo II. La sua eredità, il posto che ha nell’ideale Pantheon nazionale, quello degli eroi. Il terreno di scontro è quello più delicato, quello su cui la Chiesa barcolla da tempo, sballottata tra le inchieste bostoniane di Spotlight, le rumorose e litigiose commissioni vaticane, i pentimenti corali e pubblici disposti dal Papa di Roma, davanti a una folla che chiede di più, sempre di più, scalpi e teste da affidare a Mastro Titta. Le inchieste demoscopiche e sociologiche delle Conferenze episcopali, alcune più serie e rigorose, altre fatte mettendo insieme le risposte a questionari anonimi online che, ovviamente, descrivono una Chiesa  zeppa di abusatori seriali. Vale a poco che le indagini siano state confutate, in particolare quella di Overbeek. Due giornalisti, Tomasz Krzyzak e Piotr Litka, hanno ricostruito le accuse mosse a Wojtyla e si sono concentrati sui tre casi “incriminati” su cui l’allora arcivescovo avrebbe scelto la strada dell’omertà. Ebbene, un sacerdote è stato rimosso dalla parrocchia, sospeso dal servizio sacerdotale e confinato in un monastero. Lì è stato pure arrestato e, una volta tornato in libertà, è stato tenuto ben lontano dalla catechesi e dal confessionale. Un secondo accusato non era incardinato nella diocesi di Cracovia, bensì in quella di Lubaczów (oggi Zamoscść-Lubaczów). Wojtyla si è quindi limitato – come le norme prevedevano – a metterlo nelle mani del suo vescovo. Il terzo caso, quello con risvolti da trama cinematografica, riguarderebbe un presbitero inviato in Austria, con tanto di lettere di accompagnamento spedite all’allora arcivescovo di Vienna, il cardinale Franz König, che poi sarebbe colui che propose il nome di Wojtyla nel Conclave seguito alla morte di Giovanni Paolo I. Il caso in questione si basa però esclusivamente su un’unica fonte documentale: le cartelle della polizia segreta comunista, che per anni ha cercato di isolare e limitare lo spazio d’azione del giovane arcivescovo di Cracovia, temendone l’impeto e la popolarità. Non a caso la Conferenza episcopale polacca, attraverso un comunicato firmato dal suo presidente, mons. Stanislaw Gadecki, ha ricordato che due accuse sono già state confutate mentre la terza si basa su materiale della polizia segreta. “Gli autori di queste voci di discredito si sono impegnati a valutare Wojtyla in modo parziale e astorico, senza conoscere il contesto, considerando acriticamente i documenti creati dai servizi di sicurezza”. Documenti che, s’intende, sono tutt’altro che affidabili

 

Il caso però è ben lontano dal rientrare nei normali canoni del dibattito intellettuale. E’ una questione politica. Domenica scorsa, quella delle Palme, migliaia di polacchi si sono riversati nelle strade di Varsavia e di altri centri minori per gridare all’unisono che Karol Wojtyla non si tocca. Un popolo armato di bandiere polacche e vessilli vaticani. Qualche ritratto del “santo subito” e fotografie, tante preghiere e rosari. Un mese fa, gli ultras del Legia Varsavia avevano appeso in curva uno striscione, durante una partita di campionato: “Giù le mani da Giovanni Paolo II”. Non tutti, però, la pensano allo stesso modo. 

La Polonia dell’aprile 2023 non è la stessa dell’aprile 2005, quella che appena da Roma giunse la notizia della morte del Papa, ne reclamò il cuore, da seppellire nel Wawel. Era la Polonia che in quei giorni d’inizio primavera invase le strade attorno a San Pietro, piangendo per il suo Papa, colui che nella tradizionale e un po’ banale narrazione aveva buttato giù il Muro di Berlino, ridandole la libertà tanto agognata. Oggi, a scendere in piazza sono i più conservatori, gli elettori fedeli del partito al governo della destra euroscettica. Quelli delle campagne, si dice, ché le città ormai guardano più ai palazzoni brussellesi che alla Madonna di Czestochowa e ai rosari preferiscono le bandiere blu con le dodici stelle. Dicunt. E sui social impazzano le foto dall’alto dei cortei, si fanno i confronti con le piazze, si spiega che i cinquanta-centomila annunciati in realtà sono un decimo, che quell’aiuola è visibile mentre quando ci sono le vere e partecipate manifestazioni di piazza non se ne vede neppure una foglia. Insomma, una manifestazione di partito e nulla più, un corteo della destra (più o meno estrema) che difende un simbolo e mira a far tacere le voci libere. E subito parte la reazione: “Giù le mani da Giovanni Paolo II”. 

 

Fronti contrapposti che s’alimentano sui social, che s’ingrossano progressivamente, che mescolano politica e fede, simboli e slogan alla moda. Che inondano Twitter e Facebook e Instagram, usando il Pontefice santo come strumento di lotta, da una parte e dall’altra, chi facendone un segno identitario, chi il feticcio di una Polonia vecchia e rurale, illiberale e chiusa nei propri confini. Il combinato disposto libro-inchiesta televisiva è finito in Parlamento, che ha approvato una risoluzione in difesa di Wojtyla. Si “condanna fermamente la vergognosa campagna di diffamazione dei media, in gran parte basata sui documenti della macchina della violenza comunista polacca, contro il grande Papa san Giovanni Paolo II, il più grande polacco della storia”, ha detto Jaroslaw Kaczyński. Materiale che “nemmeno i comunisti hanno osato usare”. Diritto e Giustizia, il partito dominante, ha votato sì, in modo compatto. Gli altri o si sono astenuti o, la sinistra, hanno votato contro. Il premier Mateusz Morawiecki ha accusato i giornalisti “nemici” non solo di cercare lo scoop sensazionalistico, ma di fomentare una guerra culturale

 

Le inchieste sono ben confezionate, approfondite, ma ancora una volta infarcite di testimonianze anonime, di gente che sapeva – che ha sempre saputo – ma che non ha mai detto alcunché. Neppure quando la Chiesa si preparava, e non certo di nascosto, a beatificare a tempo di record il Pontefice d’oltrecortina e quindi a canonizzarlo. E poi i documenti della polizia segreta. A tal proposito, sul Catholic Herald, ha scritto Oleńka Hamilton: “Nessuno sano di mente può pensare che tollerare e insabbiare abusi sui bambini sia una cosa accettabile, men che meno Giovanni Paolo II, il quale nel 1983 introdusse un nuovo codice canonico che obbligava espressamente a punire i membri del clero colpevoli di abusi sessuali. Allo stesso modo, nessuno sano di mente non prenderebbe quanto sta scritto negli archivi del governo comunista con la massima cautela”. E nel suo articolo, ripreso in italiano da Tempi, ricorda cosa significava per un uomo di Chiesa muoversi nella Polonia di quel tempo: “Erano molti i modi in cui il lavoro da vescovo di Cracovia di Wojtyla veniva reso quasi impossibile. Uno di questi era la presenza dei cosiddetti ‘preti patrioti’, talpe del governo che diffondevano disinformazione all’interno della Chiesa e raccoglievano informazioni su chi ne faceva parte. E non era raro che queste talpe prendessero di mira i colleghi sacerdoti e tentassero di ricattarli utilizzando una tattica che divenne nota come korek, worek i rosporek, ossia ‘tappo di sughero, borsa (di denaro) e patta (dei pantaloni)’. La base di questa tattica era prendere un prete, allungargli una bottiglia di vodka e un po’ di soldi, e incoraggiarlo a parlare nella speranza che quello confessasse una qualche inclinazione sessuale disordinata. Se confessava qualcosa, era nelle loro mani, e senz’altro restava nei ranghi del clero”. 

 

Giudicare la storia con gli strumenti odierni e con la sensibilità della realtà contemporanea è un gioco che va di moda e che di sicuro attira il consenso delle masse. Che sia una statua di Colombo da abbattere negli Stati Uniti, un quadro di David Hume da togliere in qualche università inglese, un giallo di Agatha Christie da privare di inadeguate scorrettezze politiche. O, appunto, giudicare quel che la Chiesa ha fatto e non ha fatto sessanta, settanta, ottant’anni fa. Scoperchiando tombe di vescovi per cercare chissà quali prove sulla loro colpevolezza, andando a ridefinire con schemi mentali odierni comportamenti, parole e scritti di un secolo o di mezzo secolo fa. Il rimestare nel torbido, la brama giacobina di sangue e teste che rotolano sul patibolo: non è certo una novità, le folle vanno in estasi quando c’è il capro espiatorio da far arrostire sull’altare improvvisato. Gli episcopati di mezzo mondo sono caduti uno dopo l’altro, tra abiure e mea culpa, individuali o collettivi. Conferenze stampa di alti prelati contriti, pronti a scusarsi e a vendere immobili pur di risarcire le vittime. Come se ciò potesse fungere da assoluzione sacramentale. E tra una richiesta di perdono e altro, ricordano l’ovvio che però fa poca presa sui media e sull’opinione pubblica, e cioè che le violenze commesse da membri del Clero sono una cifra infinitesimale di tutti i crimini che rientrano nella sfera sessuale, e che gli abusi avvengono in gran parte commessi in famiglia o nelle società sportive. 

 

Però resta una parentesi, una postilla che poco interessa a chi vuole lo scalpo della Chiesa, salvo poi non accontentarsi neppure allorché il Papa organizza simposi penitenziali  in Vaticano. Coraggioso è stato un anno fa il presidente della Cei, Matteo Zuppi, quando ha spiegato cosa la Chiesa italiana intende fare per far luce sugli abusi dei suoi rappresentanti. Niente sondaggi online, tipo quelli che vengono lanciati dalle squadre di calcio per votare il migliore in campo al termine della partita di cartello. Nessun sepolcro scoperchiato e profanato, nessuna caccia alle streghe né carotaggi nella vita delle diocesi degli anni Venti, Trenta e Quaranta del secolo scorso. Davanti all’orrore manifestato dalle associazioni per le vittime  e le relative polemiche per la sempiterna “omertà”, Zuppi rispondeva semplicemente che “noi le cose vogliamo farle bene”. Perché non iniziare dal 1945, strada imboccata da tanti altri episcopati? “Perché è molto serio così. A noi interessa affrontare le contraddizioni vere, le cose che conosciamo. Giudicare con criteri di oggi fatti di ottant’anni fa non va bene”, disse nella prima conferenza stampa dopo l’elezione ai vertici della Cei. Ma è una direzione che si scontra con il mondo che ha già stabilito che la Chiesa è comunque colpevole. E che i suoi rappresentanti debbano essere perseguiti, vivi o morti che siano

 

In Polonia, sulla scorta del libro accusatorio e dell’inchiesta televisiva, c’è chi ha proposto di rimuovere i monumenti dedicati a Giovanni Paolo II, presenti un po’ ovunque nel paese. Accettando insomma le accuse e stabilendo che sono vere, senza neanche una verifica.  Il problema è che qui non serve una riedizione del macabro processo medievale al Papa defunto Formoso istruito dal suo successore Stefano VII, ma  un’indagine seria che non si basi solo sulle delazioni della polizia segreta comunista. E pare assurdo che Wojtyla, che pure secondo i sondaggi è ancora considerato un’autorità morale in patria (così la pensa il 70-73 per cento dei polacchi), sia diventato oggetto di contesa tra le forze politiche, strumento da campagna elettorale. La sinistra dura e pura, quella un po’ nostalgica dei tempi andati, ha colto la palla al balzo per chiedere la damnatio memoriae: via il nome di Giovanni Paolo II da tutti gli spazi pubblici, scuole e asili compresi. Come se non fosse mai esistito. Sono tutti elementi dal potenziale pericoloso, anche perché la destra del PiS ha avuto gioco facile a ricordare che Wojtyla “è la nostra identità, il nostro fondamento e il nostro legame. I comunisti lo sapevano perfettamente e per questo hanno cercato di distruggerlo mentre era in vita e oggi lo fanno i loro eredi, dopo la sua morte”. L’ha capito bene il lungimirante Adam Michnik, fondatore del più importante quotidiano polacco, la liberale Gazeta Wyborcza, che da anni contrasta l’illiberalismo del partito al governo, reo a suo giudizio di soffiare sul fuoco, alimentando paure e spettri: “Non si può ridurre Karol Wojtyla allo scandalo degli abusi sessuali commessi da membri del clero. Wojtyla era un figlio della sua epoca. Quello che per noi oggi è scontato, non lo era quarant’anni fa”. 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.