Il papa emerito
Il coraggio della verità è quel che resterà del papato di Benedetto XVI
Dio, l’uomo, la bellezza, il dolore, la morte: tutto abbiamo esorcizzato in una sorta di rimozione generale. La tragedia culturale del nostro occidente diventerà nulla rispetto "all'ammutolirsi di ciò che è realmente umano"
In queste ore prego anch’io per il Papa emerito Benedetto XVI. Ad accompagnarmi in questa preghiera un’immagine e un pensiero fisso. L’immagine è quella di Benedetto XVI avvolto nella sua bianca e quasi commovente fragilità. Il pensiero fisso è quello di una straordinaria forza spirituale e intellettuale, la cui luce abbagliante sembra come tenuta a freno per consentirle di illuminare almeno quel poco che il nostro tempo riesce a comprendere e di cui ha bisogno, in attesa che se ne schiuda tutta la portata teologica, filosofica e politica (ci vorranno molti anni).
Al centro del suo magistero un’idea semplice: cercare Dio, il Dio di Gesù Cristo, equivale a venire in chiaro con l’uomo stesso. Dio non è un di più di cui la ragione umana potrebbe anche fare a meno; è piuttosto la condizione che rende ragionevole la stessa ragione e tutto ciò che l’uomo è in grado di costruire, inclusa la città e le sue leggi. A partire dalla sua prima enciclica, Benedetto XVI non ha fatto altro che richiamare il realismo “inaudito” della figura di Gesù Cristo e, attraverso di lui, “l’interazione necessaria tra amore di Dio e amore del prossimo”. Deus caritas est, appunto.
Il comandamento dell’amore assunto, da un lato, come banco di prova della vita cristiana sia sul piano della vita individuale che su quello della comunità ecclesiale, dall’altro come la massima espressione della grandezza di Dio e della grandezza dell’uomo. Di qui il richiamo continuo da parte di Benedetto XVI ad alcuni temi cruciali, che dopo essere stati al centro del nostro dibattito pubblico per diversi anni, oggi sembrano non attrarre più l’interesse di coloro, cattolici e laici, che si occupano di politica: l’inviolabile dignità della persona umana, la legge naturale, il carattere incondizionato dell’obbligazione morale, il significato della libertà. Tutti temi affrontati da Benedetto XVI con uno stile comunicativo aperto, rispettoso, delicato, alieno da qualsiasi cedimento alla polemica o allo stereotipo, trepidante forse di non riuscire a comunicare la verità in modo convincente, ma senza mai sottrarsi alla responsabilità di dirla tutta intera. Questo è stato lo stile di Benedetto XVI; uno stile peraltro sempre fedele a quello che egli aveva scelto come proprio motto episcopale: “Collaboratore della verità”.
Sappiamo bene a quale verità alludono queste parole della terza lettera di Giovanni e quanto questa verità ecceda le verità della filosofia o quelle più traballanti ancora della politica. Eppure sentiamo che si tratta di un’eccedenza benefica, incoraggiante, produttiva; un’eccedenza che, ben lungi dall’umiliare la ragione umana, la rende ancora più forte e più libera. Da cardinale, Benedetto XVI lo aveva sottolineato in modo efficacissimo: “Il Cristianesimo ha la pretesa di dirci qualcosa su Dio, sul mondo e su noi stessi – e certo qualcosa di vero, qualcosa che ci illumina”.
“Sono giunto perciò alla conclusione che in un’epoca di crisi, in cui siamo sommersi dal flusso delle verità scientifiche e in cui però le questioni umane fondamentali sono ricacciate nel soggettivo, abbiamo nuovamente bisogno di metterci alla ricerca della verità, abbiamo nuovamente bisogno del coraggio della verità. Da questo punto di vista queste parole antiche, che mi sono scelto come motto, definiscono aspetti della funzione di un sacerdote e teologo che deve cercare, in tutta umiltà, con piena coscienza della propria fallibilità, di diventare collaboratore della verità”.
Per certi versi può essere triste e deprimente sapere che per affermare la verità, per dire aristotelicamente come le cose stanno, quindi ciò che è evidente, ci vuole coraggio. Ma senza questo coraggio, possiamo starne certi, non riusciremo ad arginare quella sorta di grande tragedia metafisica che si sta consumando da diverso tempo nella cultura occidentale. Dio, l’uomo, la bellezza, il dolore, la morte: tutto abbiamo esorcizzato in una sorta di rimozione generale. Ma, per dirla ancora con il cardinale Ratzinger, “quando non si parlerà più di Dio e dell’uomo, del peccato e della grazia, della morte e della vita eterna, allora tutte le grida e tutto il rumore che ci saranno risulteranno solo un vano tentativo di ingannarsi rispetto all’ammutolirsi di ciò che è realmente umano”. Ecco perché abbiamo bisogno del coraggio della verità.
Al mite Joseph Ratzinger, uomo di pensiero e di studio divenuto Papa Benedetto XVI e poi Papa emerito, non è mai mancato questo coraggio. Nel suo lungo magistero egli ci ha ricordato incessantemente che “non è mai anacronistica la fiducia di cercare e di trovare la verità”. E per questo gli dobbiamo ammirazione e gratitudine. Se la nostra cultura non si è ancora arresa del tutto al nichilismo che a tutti i livelli la pervade, lo dobbiamo certo anche alla sua opera di “collaboratore della verità”.