foto Meeting di Rimini 

Uomini nonostante tutto. Anche nell'abisso dei lager sovietici

Messaggi cuciti con le lische di pesce, lettere, preghiere. Testimonianze da Memorial, in mostra al Meeting di Rimini

Matteo Matzuzzi

In ogni sezione dell'esposizione si alternano voci che sottolineano le condizioni disumane, volte ad annichilire la persona, e altre che parlano della dignità riconquistata, di un bene che può risplendere ovunque

Rimini, dal nostro inviato. Il primo nucleo di Memorial si forma alla fine degli anni Ottanta, quando i refoli del disfacimento imminente dell’Impero sovietico si fanno sentire. Siamo in piena perestrojka, c’è la convinzione comune che solo la memoria di quel che è stato può impedire che la tragedia si ripeta. Si avverte l’esigenza di riabilitare le vittime dell’orrore, di chi fu spedito nei lager perché considerato “nemico del popolo”. Si fa un monumento, ma ancora più importanti sono l’archivio e la biblioteca. Alimentare la memoria per riaccendere continuamente una domanda, uno sguardo carico di attenzione e di stima per l’uomo e la realtà. “Uomini nonostante tutto. Storie da Memorial”, è la mostra al Meeting di Rimini che nasce da due percorsi espositivi realizzati a Mosca: il primo è dedicato alle lettere che i padri spedivano dai lager, il secondo riguarda l’universo femminile nei gulag, quei piccoli oggetti che le madri confezionavano nel tentativo di mantenere vivo un legame con i propri affetti più cari lontani migliaia di chilometri.

 

Il vissuto in quei non luoghi di disperazione è conosciuto, libri ne hanno narrato la storia. Vedere però quel che è stato negli oggetti e nelle lettere è un’altra cosa. In ogni sezione della mostra, a  cura della Fondazione Russia Cristiana e dell’Associazione Memorial, si alternano voci che sottolineano le condizioni disumane, volte ad annichilire la persona – “Di notte mi svegliai per il freddo terribile… Quel primo freddo in prigione non lo dimenticherò mai. Non so come fare a descriverlo. Morivo di sonno e il freddo mi teneva sveglia”, ricorda Chava Volovic –, e altre che parlano della dignità riconquistata, di un bene che può risplendere ovunque e, nonostante tutto, consentire di restare uomini. Dal momento dell’arresto, la persona non è mai sola, neppure al gabinetto. A volte, nelle baracche, le donne appendevano tendine fra una cuccetta e l’altra, sperando così di conquistare un minimo di riservatezza. Appena le guardie se ne accorgevano, requisivano tutto. L’individuo è solo, impotente davanti alla macchina di un potere anonimo, a cui è impossibile chiedere spiegazioni. Questo isolamento è ottenuto distorcendo e calpestando le relazioni che formano una società civile, a partire dai legami famigliari. Annullando (o cercando di annullare) la persona. Si sente forte l’eco di Vita e destino, il capolavoro di Vassilij Grossman. Non più persone, solo numeri. “Era tutto finito. Il passato era tagliato via. Ero solo contro quella macchina enorme, terribile, che voleva annientarmi”, si legge in una testimonianza.

 

Una macchina che puniva i condannati e, ancora di più, i propri cari rimasti nella “civiltà”: “Va a finire che voi siete punite peggio di me: a breve non avrete più neppure il tetto e la razione che invece il carcere offre a me. No, non può essere! Nel paese dei Soviet non è possibile che si muoia di fame e disoccupazione. E’ assurdo!”, scriverà alla moglie e alla figlia Michail Lebedev, condannato nel 1937 a dieci anni di lager  e liberato nel 1946 perché malato di cancro. Otterrà la riabilitazione post mortem nel 1957. I detenuti mostravano una creatività impensabile: per mantenere la memoria s’inventavano di tutto: ricamavano messaggi su un lenzuolo usando una lisca di pesce salvata dalla minestra, chiudevano messaggi per i propri cari su pacchetti di sigaretta con ivi impresso l’indirizzo di casa e li gettavano dai treni, sperando che qualcuno li raccogliesse e li facesse giungere a destinazione. Una prigioniera ricorderà: “Quando sei isolata, senza niente da fare, hai letto, riletto, imparato a memoria i libri che avevi, allora senti fisicamente il tempo come un fardello insopportabile che ti schiaccia, ti soffoca, ti rovina addosso. Pensi: ‘Signore, poter fare qualcosa! Foss’anche rotolare dei massi’”.

 

Scrivevano, come meglio potevano, per continuare a vivere. Scrivevano quel che facevano quando erano liberi e non ridotti a numeri perché solo così, ricordando la propria vita di prima, si ricordavano di essere persone. Non si rinuncia, insomma, a essere vivi. Ogni espressione di umanità, amicizia, spirito di sacrificio assume un valore incalcolabile, distingue l’uomo “dal non umano”. Il 28 dicembre 2021, Memorial è stato liquidato con decreto della Corte suprema russa perché accusato di contravvenire alla legge sugli agenti stranieri. La colpa?  “Aver mistificato la memoria della Grande guerra patriottica e di aver creato un’immagine falsa dell’Unione sovietica come stato terroristico”. 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.