L'agenda del Papa per la Chiesa. I tre discorsi fondamentali nel cuore d'Europa

Altro che viaggio in tono minore: quello in Slovacchia ripropone con forza il programma di Francesco per il futuro del cattolicesimo

Matteo Matzuzzi

Molti i punti di contatto con la visita del 2015 negli Stati Uniti. Sei anni dopo, le stesse parole sono usate per sferzare l’Europa, proprio nei luoghi dove più ricorre l’uso della croce come vessillo identitario

Roma. Il Papa è tornato a viaggiare in occidente, nel cuore dell’Europa che spesso – soprattutto all’inizio del pontificato – non sembrava rappresentare il centro della sua azione pastorale come lo era stata per il predecessore. Dopo il riuscito pellegrinaggio iracheno di inizio anno, i quattro giorni trascorsi tra Ungheria e Slovacchia sarebbero potuti sembrare un capitolo minore, in nulla paragonabile all’effetto anche solo “fotografico” del vescovo di Roma che passeggia tra le macerie della Piana di Ninive prima di entrare nella chiesa dell’Immacolata Concezione a Qaraqosh  sfregiata dalle orde del califfato islamico. Invece, i discorsi nella Mitteleuropa hanno ridato sostanza al “programma” di Francesco, alla sua visione di Chiesa anche nel contesto occidentale segnato dalle spinte secolarizzanti. Tre sono stati i discorsi fondamentali. Il primo, davanti ai vescovi, sacerdoti, religiosi, seminaristi e catechisti a Bratislava: il Papa ha detto che “la Chiesa deve essere umile” e non deve separarsi dal mondo: “Non guarda con distacco la vita ma la abita dentro. Questo ci aiuta a uscire dall’autoreferenzialità: il centro della Chiesa non è la Chiesa. Quando la Chiesa guarda se stessa, finisce come la donna del Vangelo: curava su se stessa, guardandosi l’ombelico”. Non solo, perché Francesco ha ribadito che “una Chiesa che non lascia spazio all’avventura della libertà, anche nella vita spirituale, rischia di diventare un luogo rigido e chiuso. Forse – ha aggiunto – alcuni sono abituati a questo; ma tanti altri – soprattutto nelle nuove generazioni– non sono attratti da una proposta di fede che non lascia loro libertà interiore, non sono attratti da una Chiesa in cui bisogna pensare tutti allo stesso modo e obbedire ciecamente”. Da qui l’auspicio che si faccia crescere le persone “libere da una religiosità rigida”.  Il giorno successivo, nell’omelia pronunciata in occasione della Divina liturgia a Presov, ha biasimato chi “sogna un Dio forte e trionfante”. 

 

Quante volte aspiriamo a un cristianesimo da vincitori, a un cristianesimo trionfalistico, che abbia rilevanza e importanza, che riceva gloria e onore. Ma un cristianesimo senza croce è mondano e diventa sterile”. Ancora, “non riduciamo la croce a un oggetto di devozione, tanto     meno a un simbolo politico, a un segno di rilevanza religiosa e sociale”. La croce, ha detto ancora il Papa, “non vuol essere una bandiera da innalzare, ma la sorgente pura di un modo nuovo di vivere”. Bergoglio non si trovava nella vicina Repubblica ceca, dove i cristiani sono minoranza ormai irrisoria, eppure anche nella Slovacchia dove la situazione è migliore ha voluto ricordare che è necessario “trovare nuovi alfabeti per annunciare la fede presso i popoli dell’Europa”. “Abbiamo sullo sfondo una ricca tradizione cristiana, ma per la vita di molte persone, oggi, essa rimane un ricordo di un passato che non parla più e che non orienta più le scelte dell’esistenza”. E “dinanzi allo smarrimento del senso di Dio e della gioia della fede non giova lamentarsi, trincerarsi in un cattolicesimo difensivo, giudicare e accusare il mondo cattivo”. Da qui l’esigenza di dialogare “con il mondo, con chi confessa Cristo senza essere dei nostri, con chi vive la fatica di una ricerca religiosa, anche con chi non crede”. Una Chiesa che “non è selettiva di un gruppetto”. Ieri, a Sastin, è tornato sul tema, quando ha osservato che “non si tratta di essere ostili al mondo, ma di essere ‘segni di contraddizione’ nel mondo. Cristiani che sanno mostrare, con la vita, la bellezza del Vangelo. Che sono tessitori di dialogo laddove le posizioni si irrigidiscono; che fanno risplendere la vita fraterna, laddove spesso nella società ci si divide e si è ostili; che diffondono il buon profumo dell’accoglienza e della solidarietà, laddove prevalgono spesso gli egoismi personali, gli egoismi collettivi; che proteggono e custodiscono la vita dove regnano logiche di morte”.

 

Discorsi che hanno ricordato quanto disse nel settembre del 2015 negli Stati Uniti, davanti ai vescovi americani riuniti nella cattedrale di San Matteo a Washington, colpiti dal sentire il Papa che diceva: “Guai a noi, però, se facciamo della croce un vessillo di lotte mondane, dimenticando che la condizione della vittoria duratura è lasciarsi trafiggere svuotare di se stessi”. Avvertiva, Francesco, che “non poche sono le tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze”. Anche allora parlava a una Chiesa occidentale, tentata dall’adorare le ceneri e rimpiangere un passato andato anziché gettarsi al largo generando processi. Sei anni dopo, le stesse parole sono usate per sferzare l’Europa, proprio nei luoghi dove più ricorre l’uso della croce come vessillo identitario.
  Sul volo di ritorno verso Roma, Francesco ha riaffermato che “l’aborto è più di un problema: è un omicidio”. Per quanto riguarda il matrimonio tra persone dello stesso sesso, il Papa ha detto che “ci sono leggi che aiutano la situazione di tanta gente che ha un orientamento sessuale diverso, ma il matrimonio è il matrimonio, tra uomo e donna”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.