La guerra civile nella chiesa
La sfida degli americani e il dossier Viganò. Niente sarà più come prima nel pontificato di Francesco
Padre Thomas Reese, liberal ex direttore di America, la rivista dei gesuiti americani, scrive perplesso che “siccome il Papa è l’unico testimone dell’incontro con monsignor Carlo Maria Viganò, solo lui può confermare o smentire quanto detto dall’ex nunzio, e rifiutando di rispondere a questa domanda di certo non rafforza la sua credibilità”. Ecco il problema già emerso in tutta la sua drammatica forza già poche ore dopo la pubblicazione del memoriale steso dal diplomatico della Santa Sede: la credibilità. Il Wall Street Journal l’aveva sottolineato subito, mentre al di qua dell’Oceano si preferiva fare di Viganò l’Aronne Piperno immortalato nel “Marchese del Grillo” di Alberto Sordi, portato in giro per Roma a cavalcioni d’un asinello mentre la folla gli tirava ortaggi addosso. Oggi al posto del pomodoro marcio e del cavolo c’è a disposizione la potenza inodore dell’attacco via social, ma la sostanza non cambia poi troppo.
Il messaggio che è passato è che anche il Papa del popolo chiamato da lontano per fare entrare aria fresca in Vaticano ha fallito
Il dossier Viganò – o “cartiglio”, come lo definisce Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani – può essere vero o falso, vi possono essere rintracciati episodi reali e altri contraddittori, ma già non è più questo il punto della questione. La questione che rileva è il messaggio che è passato, e cioè che anche il Papa del popolo, colui che preso dall’altra parte del mondo per sanare le malattie di una chiesa troppo ripiegata su se stessa e autoreferenziale, salito al Soglio di Pietro per riformare le strutture, rendere trasparente il palazzo e fare entrare aria fresca, ha fallito. E non ha fallito rallentando le riforme finanziarie o ritardando l’unificazione delle troppe diocesi italiane: ha fallito sul peccato che più sconvolge la sensibilità dell’opinione pubblica, anche di quella devotamente cattolica: gli abusi sessuali. L’operazione poi è tutta qui: di prove Viganò non ne porta neppure una nelle sue undici pagine, ma non era questo l’obiettivo. L’importante era rendere Francesco come gli altri, come quella vecchia curia che per decenni avrebbe coperto, insabbiato e rimestato nel torbido per sopravvivere.
E’ chiaro che, come dice padre Reese, con questi presupposti la risposta aerea di Jorge Mario Bergoglio non può bastare. Lasciare ai giornalisti – che infatti come scriveva il Foglio venerdì stanno consumando sui resti del pontificato la loro personalissima guerra intestina a suon di insulti pubblici – il compito di valutare la veridicità del rapporto Viganò è insufficiente. Marco Politi, vaticanista di lungo corso, ha scritto sul Fatto che basterebbe poco per mettere una pezza su questa storia: “Al Vaticano spetta l’incombenza di rispondere sui documenti. Ci sono o no i dossier dei nunzi Montalvo e Sambi sui rapporti inappropriati di McCarrick con seminaristi e preti? Esistono o no i due appunti inviati da Viganò al cardinale Bertone?”. Non rispondere derubricando la faccenda alla solita cospirazione conservatrice, ultimo capitolo della lotta tradizionalista alle aperture del pontificato bergogliano, non basta più. Se il dossier dell’ex nunzio è pura spazzatura, perché non dire che in Vaticano di documenti spediti dagli Stati Uniti con le denunce di tre nunzi non v’è mai stata traccia? Il caso si chiuderebbe in poco meno di due minuti.
La partita però è più complessa e va ben oltre la mossa di mons. Viganò, a suo dire animato dalla volontà di arrivare alla Verità.
Quanto accaduto pare sempre di più come la miccia che ha dato fuoco alle polveri, come fece Gavrilo Princip a Sarajevo il 28 giugno del 1914 allorché eliminò l’arciduca Francesco Ferdinando e la consorte Sofia, dando il là al Primo conflitto mondiale. Quel gesto non fu che il via libera atteso da tante cancellerie europee, che alla guerra si preparavano da anni, nonostante i balli da Belle Epoque e i litri di champagne consumati in cene di gala tra gli hotel di Berlino e Parigi. Le manovre erano state sperimentate, lentamente, da tempo. Nella chiesa cattolica la situazione non è troppo dissimile. La miccia ha preso fuoco su un terreno già altamente infiammabile, almeno fin dal doppio Sinodo sulla famiglia che ha allargato la distanza tra le due anime che da sempre si guardano al di là e al di qua del fiume. Ridurre il tutto a una lotta furibonda tra conservatori e progressisti, però, è superficiale, oltre che inutile.
Il Pontefice accerchiato, le fazioni che lottano. Il viaggio in Cile, una spia chiara che qualcosa stava davvero cambiando
E’ l’America il campo di battaglia, oggi. Lo era fin dal 2013, quando poche settimane dopo l’elezione dell’arcivescovo di Buenos Aires a Pontefice i suoi confratelli vescovi statunitensi segnalavano già una certa sofferenza. “Un manager, abbiamo eletto un manager” per fare le riforme, diceva a gran voce il cardinale di New York Timothy Dolan, chiedendo a qualcuno in grado di rispondere perché Tarcisio Bertone, il segretario di stato di Benedetto XVI, fosse ancora al suo posto (sarebbe stato sostituito alla fine dell’estate di quell’anno). Il cardinale Francis George rendeva noto che il suo ultimo desiderio prima di morire era quello di raggiungere Roma per porre al Papa qualche domanda sullo stato delle cose nella chiesa, per certe sue iniziative, per qualche frase (a suo dire) di troppo sfuggita a Bergoglio.
Le scosse telluriche c’erano tutte, il mare era mosso e la rappresentazione plastica dello scontro si ebbe tre anni fa, quando Francesco mise per la prima volta nella sua vita piede negli Stati Uniti. A Washington, nella cattedrale di San Matteo, pronunciò un discorso tra i più importanti del pontificato, sebbene presto messo in archivio e soppiantato da quelli mediaticamente più intrigranti, ad esempio sui giovani che si suicidano perché disoccupati. In quell’occasione, il Papa sovvertì trent’anni di politica ecclesiastica americana, invitò i vescovi a tagliare i ponti con il conservatorismo muscolare, le guerre culturali, la croce esibita come un vessillo. Basta rintanarsi dietro il fortino sempre più diroccato, il mondo è cambiato: serve uscire e andare incontro alle pecore smarrite, lasciarsi alle spalle trent’anni di marce e rivendicazioni politiche. Il modello dell’ospedale da campo anche per la chiesa americana. I vescovi lo guardavano sbigottiti, increduli benché i segnali che quello fosse l’indirizzo c’erano tutti. Un discorso che, lo facevano intendere i prelati americani cresciuti all’ombra della culture war, seppelliva di fatto il wojtylismo più puro. Francesco lo sapeva bene, e sapeva altrettanto bene che l’unico modo per tagliare i ponti con un passato da lui non condiviso era quello di passare dalla sostituzione dei vescovi. Se questi ultimi non vogliono cambiare l’agenda, le priorità pastorali, allora si deve cambiare la gerarchia. E allora ecco Blase Cupich a Chicago al posto di Francis George, più discorsi su Laudato Si’ e meno su Evangelium vitae; cardinalato concesso a Cupich, Farrell e Tobin anziché ai titolari delle sedi di Los Angeles, Philadelphia e Baltimora, per tradizione cardinalizie. Ma il fossato, anziché restringersi, s’è ampliato ancora di più.
Mons. Viganò in undici pagine di memoriale non ha presentato neppure una prova. Ma l’obiettivo dell’operazione era un altro
Il Papa e la chiesa americana non si prendono: Bergoglio “è un latinoamericano, il che comporta una certa quantità di antiamericanismo”, diceva tempo fa al Foglio lo storico Massimo Faggioli. “Negli Stati Uniti questo si sa bene, solo che non si può accusare esplicitamente il Pontefice di essere anti yankee. E’ una questione latente”. E’ questo mare in burrasca che Francesco dovrà ora affrontare, anche perché, dice padre Reese stavolta al Corriere della Sera, dopo il rapporto del procuratore della Pennsylvania sulla mole di abusi sessuali compiuti da membri del clero nel corso dei decenni (ma poco o nulla dopo il Duemila) tutto è cambiato e “tra uno o due anni arriveranno altri rapporti sconvolgenti come quello appena pubblicato”. Sottinteso: come risponderà il Papa? Bergoglio dalla gerarchia episcopale americana (soprattutto quella più “alta”) è ancora visto come un corpo estraneo, una specie di scheggia impazzita nel corso della storia, una parentesi che prima o poi si chiuderà.
Qualcuno avverte i prodromi dello scisma inevitabile, la chiesa che si fa ospedale che non può più andare a braccetto con la chiesa-azienda, quella dei ricchi finanziatori che male hanno digerito le sortite papali sul denaro sterco del demonio: qualche anno fa, il miliardario Ken Langone minacciò il cardinale Dolan di non versare più neppure un dollaro per il restauro della cattedrale di St. Patrick se il Papa avesse continuato a scagliare anatemi contro la finanza. Da allora, poco è cambiato. La diffidenza è rimasta, storica è la bocciatura del “candidato” di Francesco, l’allora mons. Blase Cupich, alle votazioni per l’elezione del presidente della conferenza episcopale nazionale. Una bocciatura senza appello, toccata anche al cardinale Sean O’Malley, nominato da Francesco presidente della Pontificia commissione per la tutela dei minori, quando si trattò di eleggere i membri delegati al Sinodo sulla famiglia. Nel segreto dell’urna, i vescovi americani scelsero anche mons. Charles Chaput, l’arcivescovo di Philadelphia considerato il leader dei “conservatori”. E questo nonostante la linea del Papa apparisse chiara da tempo.
L’incomunicabilità con la chiesa americana ebbe il suo apice nel 2015, con un discorso di Francesco ai vescovi troppo presto dimenticato
La chiesa viene da anni di suppliche filiali e perorazioni perché confermasse uomini e donne nella fede. Si discuteva di comunione da dare o no ai divorziati risposati, si citava san Tommaso e i passi del Vangelo, l’adultera, il beato Newman. Non era ancora accaduto che un arcivescovo, mediante un memoriale, domandasse al Sommo pontefice di farsi da parte. Un epilogo amaro, destabilizzante. Ma forse non del tutto inatteso, considerato quanto il magma sottoterra avesse continuato a muoversi in questo frammento di storia della chiesa.