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La Cina ammicca a Papa Francesco

Pechino dà conto del viaggio in Asia, ma la strada per l’intesa è ancora lunga

Per la prima volta nella storia, il Global Times – emanazione diretta e quindi controllata del Comitato centrale del Partito comunista cinese – ha dedicato un articolo al viaggio del Papa in Myanmar e Bangladesh. Un resoconto asciutto, che ricapitola le tappe toccate da Francesco e dà conto del dibattito sull’uso del termine “rohingya” che tanti grattacapi ha dato sia alla Conferenza episcopale birmana sia alla Santa Sede, nel timore che una parola di troppo potesse inficiare la riuscita della spedizione vaticana in Asia orientale. Il Papa, con grande senso della realpolitik, se l’è cavata parlando della minoranza musulmana perseguitata senza mai nominarla mentre era ospite della Giunta militare di Nay Pyi Taw e parlandone abbondantemente una volta varcato il confine con il Bangladesh.

 

Il Global Times ha valutato positivamente la missione di Bergoglio nel paese, sottolineando il ruolo svolto dalla piccola comunità cattolica per favorire un clima di pacifica convivenza tra buddisti e musulmani. Non è poco né si tratta di una semplice valutazione da osservatore esterno lontano dalle beghe politiche locali.

 

La Cina è infatti il primo partner commerciale del Myanmar, i due paesi sono legati economicamente e a Pechino piace soprattutto la collocazione strategica del paese per decenni stretto nella morsa di una guerra civile che sembrava eterna. Dire che il Papa ha agito con sapienza (elemento questo che a quelle latitudini conta parecchio) e che i cattolici riescono a tenere a galla un mosaico etnico che potrebbe esplodere da un momento all’altro facendo piombare nell’instabilità tutto l’estremo oriente, significa molto.

 

In primo luogo perché ai governanti cinesi piace chi garantisce lo status quo e la pace; in secondo luogo perché Xi Jinping ha avuto la conferma che di Francesco si può fidare, che da lui non verrà mai il tentativo di scardinare il sistema “usando” la religione. Si tratta di un passo ulteriore verso il riavvicinamento tra Roma e Pechino.

 

La strada però è ancora lunga e gli ostacoli sono molteplici, se non altro perché nonostante gli auspici e l’ottimismo dei vertici riconosciuti della chiesa cinese – primo fra tutti l’arcivescovo emerito di Hong Kong, John Tong Hon, che pure è su posizioni opposte rispetto al suo predecessore, il cardinale Joseph Zen – il negoziato riservato è ancora fermo sulla procedura di nomina e riconoscimento dei vescovi. Un terreno sdrucciolevole, cavilloso, con le parti ancora distanti. La politica dei gesti può fare molto, ma la diplomazia (ancor di più se all’insegna del realismo) conta ancora tanto.

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