La cattedrale di Santa maria del Fiore a Firenze

Il Corano in cattedrale è l'ultima frontiera del perbenismo dialogante

Matteo Matzuzzi
L’Opera del Duomo ha pensato di dare un segnale di pace e dialogo tra le fedi. Giovedì sera, sotto la cupola del Brunelleschi, si sono così udite melodie cristiane, ebraiche e musulmane, compreso un inno che declamava i versetti coranici (“Il Corano è la giustizia”).

Roma. Per il ventennale di “O flos colende”, la rassegna musicale nata a Firenze nel 1997 per celebrare i settecento anni della possa della prima pietra della cattedrale di Santa Maria del Fiore, l’Opera del Duomo ha pensato di dare un segnale di pace e dialogo tra le fedi. Giovedì sera, sotto la cupola del Brunelleschi, si sono così udite melodie cristiane, ebraiche e musulmane, compreso un inno che declamava i versetti coranici (“Il Corano è la giustizia”). Entusiasti gli interpreti, a giudizio dei quali si sarebbe trattato di una “operazione di dialogo e apertura che getta ponti tra le sponde del Mediterraneo”. Anche perché, è l’aggiunta, dopotutto “la gran parte delle musiche, se si tolgono le parole, suonano simili”. La genesi dell’iniziativa è lontana, risale a pochi giorni dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi. Di iniziative solidali ve ne sono state tante, dalle marce mano nella mano dei leader mondiali per i boulevard della Ville Lumière ai minuti di raccoglimento qua e là nelle città. Fino alla partecipazione di esponenti delle comunità musulmane alla messa domenicale dopo lo sgozzamento di padre Jacques Hamel.

 

La domanda è se la strada per un fruttuoso dialogo interreligioso sia quello di adibire le chiese a teatri con palchi dove gli imam salgono sull’altare e cantano versetti del Corano (è accaduto ad esempio a Santa Maria in Trastevere e a Bari), come prequel o sequel alla messa, che dopotutto sarebbe una cosa seria (per chi ci crede), e cioè santa: non uno spettacolo comunitario pre-aperitivo prandiale o serale a seconda dell’orario scelto. Con sacerdoti che dal pulpito, più che commentare le letture e il Vangelo spiegavano agli astanti più o meno attenti che il Corano è un libro di pace, che tutte le religioni sono uguali e che la violenza è questione di soldi e brama di potere. Finendo persino per dare l’idea, vedendo tanti sacerdoti pronti a cedere il posto sull’altare, che Eugenio Scalfari c’abbia visto giusto quando preconizza (Repubblica di ieri) l’integrazione “delle varie religioni in nome dell’unico Dio” e “della verità assoluta con il relativismo della modernità”. Il dialogo può assumere tante forme, dai simposi alle preghiere comuni ad Assisi, dalle cene ai libri. E ora anche le preghiere islamiche nelle cattedrali. Vi è forse un difetto nel significato della parola dialogo, usata al punto d’essere abusata. Nel 2001, pochi giorni dopo gli attentati qaidisti in America, il cardinale Giacomo Biffi partecipò al convegno intitolato “Multiculturalità e identità, oggi”.

 

Iniziando il suo intervento, disse che “la necessità del dialogo – oggi enfaticamente asserita un po’ in tutti i contesti, fino a essere quasi ossessiva – è quasi un’ovvietà. Come potrebbero vivere gli abitanti di un pianeta così fortemente comunicante e unificato come il nostro, senza parlarsi e confrontarsi tra loro? Possiamo anzi essere d’accordo anche sulla doverosa ricerca della reciproca comprensione attraverso una benevola attenzione all’altro (questo pare sia oggi il senso culturale del termine “dialogo”). Forse, osservò, sarebbe stato utile rifarsi al significato dato al termine da Paolo VI, che del dialogo “ha chiarito le opportunità, i metodi, i fini, ma si è volutamente astenuto da dare alla proposta di ‘dialogo’ una vera e propria fondazione teologica. Il che è forse alla fonte delle intemperanze e delle ambiguità che hanno poi aduggiato la cristianità”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.