Papa Francesco ha ricevuto per la prima volta Vladimir Putin, in Vaticano, nel novembre del 2013 (LaPresse)

La guerra a pezzi fa scintille, ma il Papa non ha ancora trovato (seri) alleati

Matteo Matzuzzi
Francesco ha un’agenda chiara, ma è senza sponde credibili. I dubbi sugli Stati Uniti (di Obama e Hillary), il dilemma-Putin (con le proteste del clero cattolico ucraino), il sogno di aprire alla Cina. Sullo sfondo, la Terza guerra mondiale a pezzi con il disfacimento dei vecchi stati nazionali e l'Europa tutt'altro che allineata al Pontefice sulla questione-migranti.

Roma. L’agenda papale per il 2016 è fitta, e non solo per gli impegni giubilari che hanno costretto Francesco ad annullare la già annunciata visita a Milano (programmata per il prossimo maggio). Ci sono i viaggi internazionali – quelli sì confermati – prima in Messico e poi in Polonia, per la Giornata mondiale della gioventù, nella Cracovia che fu di Giovanni Paolo II, ma soprattutto ci sarà da far fronte alle tante emergenze globali che alimentano la “Terza guerra mondiale a pezzi” che Bergoglio ha avuto più volte modo di illustrare nei suoi tratti essenziali. Bombe, migranti, Mediterraneo trasformato in un cimitero (come ebbe a dire parlando al Parlamento europeo, nel novembre del 2014) sono tutte parti di uno stesso problema, nella visione geopolitica di Francesco. Elementi di una crisi che deve essere risolta al più presto. Lo sottolineò egli stesso, rivolgendosi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo scorso settembre: “Non possiamo permetterci di rimandare ‘alcune agende’ al futuro. Il futuro ci chiede decisioni critiche e globali di fronte ai conflitti mondiali che aumentano il numero degli esclusi e dei bisognosi”. Il problema, come ha rilevato il vaticanista del Boston Globe, John Allen, è che per portare avanti un’agenda così impegnativa bisogna giocare di sponda, poter contare su un partner internazionale di livello e – soprattutto – affidabile. Pio V, ricorda Allen andando indietro di cinque secoli, vinse a Lepanto anche perché aveva al proprio fianco Filippo II, re di Spagna. Giovanni Paolo II, per tornare ad anni più recenti, ebbe in Ronald Reagan la spalla che propiziò lo sgretolamento del muro berlinese e il crollo della cortina di ferro. Ora che il mondo è impelagato nella possibile “guerra dei cent’anni tra sciiti e sunniti” – come ha detto ieri alla Stampa il capo dell’intelligence di Hezbollah, Abu Zalah – con i cristiani in mezzo,  sfrattati e costretti a riparare in tendopoli curde (non si sa fino a quando), la questione del “partner” è vitale. Anche perché la situazione ha assunto i contorni di una matassa che pare impossibile sbrogliare. Non a caso, sul finire dell’estate, il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato ma soprattutto diplomatico di razza che negli ultimi anni ha messo mano ai dossier più delicati (al limite dell’impossibile) – dai rapporti con la Cina a quelli col Vietnam – diceva che “il problema è veramente complesso, dobbiamo essere consapevoli di questo. Probabilmente nessuno ha la soluzione a portata di mano perché ci sono tante cause che concorrono a questo fenomeno e ci sono anche tante soluzioni che possono essere realizzate subito e altre che richiedono più tempo”.

 

Niente “partnership” con la Russia

 

L’esordio internazionale di Francesco era stato l’Angelus pronunciato nel settembre del 2013, quando prese posizione contro i bombardamenti su Damasco che allora parevano imminenti. “C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!”, aveva scandito, aggiungendo: “Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza”. Seguì la veglia silenziosa di preghiera sul sagrato di San Pietro, il digiuno, la lunga lettera inviata a Vladimir Putin (con tanto di benedizione finale) con cui gli si domandava di fare il possibile per scongiurare l’escalation bellica nel vicino oriente. Un’intesa che non passò inosservata, al punto che nei commenti di quei giorni si definì proprio il Cremlino l’interlocutore privilegiato della Santa Sede sul piano internazionale. Il partner, insomma, a lungo agognato. Ma gli sviluppi ucraini hanno ben presto fatto cadere questa pista. Il clero cattolico locale, indispettito per i viaggi di Putin a Roma, non aveva mancato d’alzare la voce: “Anche le parole possono far male. Per questo ho avvertito il Papa che alcune affermazioni della Santa Sede possono essere associate alla propaganda russa”, diceva Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kiev, a proposito di quanto affermato da Bergoglio circa la “guerra fratricida” in corso nel paese orientale. “Per descrivere quanto accade in Ucraina non si può che usare una parola: invasione”, aveva chiosato. Un quadro, insomma, che – come sottolineava la rivista Limes – metteva “fine al partenariato strategico tra Papa Francesco e Vladimir Putin”. Da qui il riavvicinamento con gli Stati Uniti, benché con tutte le cautele del caso, che di certo – ha scritto ancora Allen – saranno amplificate da un’eventuale elezione alla Casa Bianca di Hillary Clinton. Il ricordo, infatti, va agli anni in cui erano quotidiane le tensioni tra il Vaticano e l’Amministrazione americana guidata da Bill Clinton su temi come il controllo delle nascite (all’epoca, il vicepresidente Al Gore non era considerato un interlocutore). E poi, considerando la vis bellica di Hillary, ben più marcata rispetto a quella incerta di Barack Obama, non si vede come le posizioni della Santa Sede e di Washington possano coincidere in riferimento al caos mediorientale. Senza dimenticare che sulle ricette per debellare il cancro califfale che tende a sradicare la presenza cristiana da quelle terre la divergenza di vedute con le gerarchie ecclesiastiche locali è netta: se a Roma si dice che la soluzione non è la guerra, a Baghdad e Mosul si invocano i contingenti armati. Che siano milizie cristiane autoctone, truppe occidentali o battaglioni arabi sunniti, non importa: l’importante è che arrivino i  boots on the ground.

 

[**Video_box_2**]Di certo, il partner internazionale non può essere l’Unione europea, che sul fronte immigrazione ha ormai imboccato strade del tutto estranee alla linea papale. Se tuonare contro il muro eretto dal primo ministro ungherese Viktor Orbán risultava facile, più arduo risulta biasimare la sospensione di Schengen decisa dalla Svezia, il membro dell’Unione che finora ha accolto più profughi. Nel mondo postamericano rimarrebbe l’altra grande potenza, la Cina. Che l’abbraccio con Pechino sia un obiettivo del pontificato bergogliano non è un mistero: conta il gesuitismo di Francesco, ma soprattutto la consapevolezza che quella terra è – sommando i cattolici ‘ufficiali’ riconosciuti dal regime e i fedeli al Papa – il paese più cristiano del mondo, in quanto a numeri. La Santa Sede lavora, sottotraccia e a fari spenti, all’allentamento delle tensioni, fluttuando tra chi – nel clero locale – non vede l’ora di salutare l’accordo e chi, come il cardinale arcivescovo emerito di Hong Kong, Joseph Zen Ze-kiun, implora Roma di non fidarsi di Pechino.

 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.