Giudici che decidono sul fine vita

Alessandro Barbano e Vittorio Manes

La legge e quello “spazio libero da diritto”. L'autodeterminazione del malato, l'accanimento terapeutico, la dignità di morire. Un dialogo dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha aperto al suicidio assistito

Caro Vittorio,

commentando la sentenza della Consulta sul fine vita hai detto che “non sancisce il diritto di morire, né una indiscriminata libertà al suicidio. Ma piuttosto la libertà, da parte di malati con caratteristiche specifiche, di farsi assistere per congedarsi di mano propria”. Non dubito che sia così. La Corte non cancella la fattispecie dell’aiuto al suicidio, prevista dall’articolo 580 del codice penale, ma individua un’area di non punibilità circoscrivendola con quattro condizioni specifiche: che ci sia un malato affetto da una patologia irreversibile; che sopporti sofferenze fisiche o psichiche da lui ritenute intollerabili; che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; e da ultimo che la sua vita dipenda da trattamenti di sostegno vitale. Di più, la scriminante è subordinata dai giudici costituzionali al rispetto della normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda, e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Sistema sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente. Tutte queste circostanze, che la Corte pone come i presupposti e i confini di un’auspicata iniziativa legislativa del Parlamento, mi paiono più che sufficienti per configurare l’aiuto al suicidio come l’esercizio delegato non di un diritto ma piuttosto di un rimedio.

 

E tuttavia, con riferimento al rimedio, mi chiedo e ti chiedo se le norme esistenti non siano già sufficienti a garantirlo. Grazie alla legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, chiunque oggi può rinunciare alle terapie vitali, tra le quali sono espressamente incluse anche l’alimentazione e l’idratazione artificiali e, in presenza di una prognosi infausta a breve termine e di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, può richiedere la sedazione profonda continuata, uno stato simile all’anestesia o al coma farmacologico, che lo accompagni alla morte senza dolore e senza coscienza.

 

Una nuova normativa, che si ispirasse ai criteri enunciati dalla Consulta, non potrebbe che circoscrivere la libertà di cura entro limiti non dissimili da quelli rispettati nella precedente disciplina. Con riferimento alla gravità delle condizioni di salute, il requisito della “prognosi infausta a breve termine”, prescritto dalla norma che regola la sedazione profonda, è nozione più ristretta rispetto a quello della “malattia irreversibile”, indicato dalla Consulta come necessario per giustificare l’aiuto al suicidio. In un caso e nell’altro deve intendersi una patologia che non ammette il ritorno a stadi precedenti e che ha varcato una soglia, da verificare caso per caso, oltre la quale le cure si rivelino inutili quando non potenzialmente dannose. Tuttavia, la “prognosi infausta a breve termine” implica una progressione, propria di molte malattie neoplastiche e degenerative, che non si riscontra necessariamente nel concetto di “irreversibilità”, capace di ricomprendere anche stati traumatici gravissimi e non reversibili, ma stabili.

 

Una nuova normativa, che si ispirasse ai criteri enunciati dalla Consulta, non potrebbe che circoscrivere la libertà di cura entro limiti non dissimili
da quelli rispettati nella precedente disciplina. La maggior parte dei malati
in stadio irreversibile oggi è accompagnata alla morte
con la sedazione profonda 

  

Ma a restringere l’autodeterminazione del malato nel richiedere assistenza al suicidio è il diverso modo con cui i cosiddetti “trattamenti di sostegno vitale” sono intesi dalla legge sul consenso informato e dalla sentenza della Consulta. Nel primo caso rappresentano una prestazione medica che il paziente ha il diritto di rifiutare, nel secondo un presupposto per giustificare la scriminante penale. Nel suo comunicato la Corte dice espressamente che, affinché l’aiuto al suicidio non sia punibile, occorre che il paziente sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Ma se basta interrompere questi trattamenti per provocare la morte, che bisogno c’è di produrla in maniera attiva?

 

La cessazione del sostegno vitale coincide con una rinuncia all’accanimento terapeutico che, prima ancora che a un vincolo legale, risponde a un principio di rispetto per la dignità della vita. La maggior parte dei malati in stadio irreversibile oggi sono accompagnati alla morte dalla sedazione profonda, in accordo compassionevole con i medici chi li hanno in cura, in un tempo che non supera le 48/72 ore dalla somministrazione dei farmaci sedativi. Non è questa prassi, forgiata dall’evoluzione della scienza medica e farmacologica e dall’esperienza del dolore, la via più umana e più ragionevole al tragico mistero del fine vita?

 


 

Caro Alessandro,

condivido, anzitutto, la premessa da cui muovi, che è bene ribadire con forza anche perché le “questioni ad altissima sensibilità etico-sociale” – come le definisce la Corte – sono spesso preda di letture semplificanti, e non di rado banalizzate a colpi di slogan: la Corte non ha riconosciuto alcuna indiscriminata libertà di suicidio, né alcun lugubre diritto – illimitato e arbitrario – di morire.

Ha affrontato, piuttosto, il tema – distinto e distante – della possibilità da parte del malato di chiedere un “aiuto nel morire di mano propria”, in situazioni del tutto peculiari di malattia irreversibile accompagnata da gravi sofferenze, dove l’esistenza è protratta grazie a sostegni vitali, contrassegnate – e, direi, “inchiodate” – agli ulteriori contrassegni di specificità espressamente indicati nel “comunicato”, che peraltro solo le motivazioni della pronuncia potranno ulteriormente chiarire.

 

Peraltro, la questione di costituzionalità che è stata prospettata riguardava un aspetto ancora diverso e più circoscritto, che in parte è rimasto sullo sfondo, ma che in realtà è il vero punctum crucis, specie nella prospettiva cara a chi ha a cuore un modello di diritto penale liberale: se sia legittimo sottoporre a pena il comportamento di chi accoglie questa richiesta di aiuto, per passione civile o per compassione umana, e se sia legittimo sottoporre tale condotta ad una pena draconiana – la reclusione da cinque a dodici anni, ossia la stessa pena prevista per chi istiga altri al suicidio – nel quadro di una incriminazione, l’art. 580 c.p., che peraltro la stessa Corte ha pienamente confermato nella sua legittimità per tutti i casi “ordinari” e diversi dalle peculiari ipotesi simili a quella di Fabiano Antoniani, ritenendolo in generale – e nei casi ordinari, appunto – un importante presidio a tutela dei soggetti deboli e/o vulnerabili.

 

Ciò premesso, e venendo alla tua domanda, ad essa rispondo con altri interrogativi che muovono dalla tua stessa constatazione: se è vero che l’ordinamento giuridico consente già – nelle ipotesi contrassegnate dalla “tetralogia” di criteri indicati dalla Corte – di rinunciare alle terapie di sostegno vitale, nelle quali vanno ricomprese anche – per espressa previsione già della l. n. 219 del 2017 – idratazione e alimentazione artificiale, consentendo altresì di aderire a un protocollo di sedazione palliativa profonda, perché costringere un individuo a morire secondo un certo iter, obbligato e imposto dalla legge come unica strada per congedarsi da una vita che non ritiene più compatibile con il proprio concetto di dignità? Perché imporre a chi vive il dramma di una malattia e di una sofferenza dolorosissima un itinerario di morte coatto, con un ricatto che mette a repentaglio l’habeas corpus e l’intangibilità della propria sfera fisica, costringendolo ad accettare una modalità di congedo dalla vita che spesso il malato rifiuta radicalmente?

 

In molti casi il malato terminale considera l’agonia della morte per interruzione dei sostegni vitali e l’eclissi di coscienza della sedazione palliativa profonda incompatibili con il proprio concetto di dignità. E soprattutto rifiuta l’idea di sottoporre i propri cari allo spettacolo straziante di questa agonia: visto che – come insegnano i filosofi – “si vive con gli altri ma si muore agli altri”, è giusto privare il malato di questa ultima, drammatica scelta, in un momento in cui resta davvero poco da scegliere, e negargli anche questo estremo, intimo frammento di libertà?

 

Una risposta della Corte: bisogna riconoscere al malato la libertà
di poter scegliere una “alternativa reputata maggiormente dignitosa”, perché in questi casi la sua aspirazione a congedarsi dalla vita
non ha nulla a che vedere con una folle pulsione di morte,
ma è semplice pretesa di rispetto della dignità del morire 

 

Di fronte a questi interrogativi la Corte, già nell’ordinanza dello scorso anno (n. 207 del 2018) aveva dato alcune risposte, ribadite nella recente decisione: bisogna riconoscere al malato la libertà di poter scegliere una “alternativa reputata maggiormente dignitosa”, perché in questi casi la sua aspirazione a congedarsi dalla vita non ha nulla a che vedere con una folle pulsione di morte, né con un assurda volontà di autoannientamento, ma è semplice pretesa di rispetto della dignità del morire, che non è meno importante della dignità di vivere.

 

In queste situazioni, dunque, l’ordinamento giuridico deve fare un passo indietro, e riconoscere uno “spazio libero da diritto”; e anche il diritto penale deve rinunciare a minacciare una sanzione che rischierebbe solo di isolare il dramma individuale nella prigionia di una ulteriore, assurda solitudine sociale. Questa ritrazione dell’intervento punitivo risponde – del resto – al ruolo che dovrebbe avere un diritto penale laico e secolarizzato, che appunto – in linea con la lezione di Beccaria e dell’illuminismo giuridico – non vuole farsi “braccio secolare” di un determinato convincimento etico o religioso, e rifugge forme di paternalismo esasperato, pur senza dover abbracciare modelli di smodato liberalismo giuridico.

 


 

Caro Vittorio,

viviamo tempi in cui la giustizia assume una postura che tu stesso hai definito “no limits”, e che neanche il giustizialismo basta a spiegare. Il suo debordare in ogni spazio del vivere civile non risponde più a un disegno ideologico di bonifica sociale, né a un conflitto istituzionale giustificabile con le ragioni di una supplenza del giudiziario sul politico. Ma è piuttosto espressione di un potere fuori controllo, che si riproduce per autopoiesi in forme sempre più indifferenziate, cedendo alla tentazione di diventare il vero decisivo creatore di diritto in democrazia. Per tutte queste ragioni non posso che rallegrarmi se un volta tanto il penale arretra, in nome di un ritrovato liberalismo civile.

 

E tuttavia mi chiedo che cosa sia da intendersi per “spazio libero da diritto”, da te e anche da me auspicato, e che valore assuma in questo spazio la protezione della vita. A me pare che se il primo è il porto franco di una democrazia neutrale, la seconda è esposta agli incerti delle maggioranze di turno. Converrai invece che la laicità ha alcune coordinate etiche che sono venute definendosi nella storia degli Stati liberali in relazione, talvolta consonante talaltra contrappositiva, con i fondamenti religiosi. Tali coordinate, come la difesa della vita e della dignità della persona, il rispetto della libertà individuale, lo spirito di solidarietà sociale, sono definibili come “relativi-assoluti”, cioè principi di evidenza laica, sottoponibili a una costante manutenzione, ma tuttavia dotati di una sostanza rigida forgiata dalla storia dell’umanità. Questi ultimi sono immuni all’avvicendarsi delle maggioranze, poiché la loro essenza non è meramente politica, ma culturale e antropologica. 

 

Il principio di precauzione, una bussola nel dubbio dell’agire,
dovrebbe informare le politiche pubbliche alla protezione della vita,
anche in quelle condizioni in cui la vita può apparire dimidiata
da gravi compromissioni

   

Il tempo della loro ridefinizione e del loro aggiornamento coincide con il tempo di una civiltà considerata nel suo insieme. Se l’ordinamento può, come tu auspichi, ritrarsi dallo spazio pubblico senza che questo diventi una giungla abitata dai soggettivismi in conflitto, è perché i relativi-assoluti sono condivisi e in un certo senso cogenti, anche in assenza di sanzioni. La protezione della vita informa di sé tutto l’ordinamento in quanto valore cardine di civiltà. La democrazia l’ha assunta a difesa di un bene indisponibile, dapprima trasponendo nello spazio della laicità concetti e limiti propri della fede religiosa, che vuole la vita intangibile in quanto dono di Dio. Oggi però essa può legittimarla come un principio di precauzione, in nome di una visione per così dire ecologica dell’esistenza. Il concetto di sostenibilità, che è tanto caro ai neonascenti movimenti giovanili in tutto il mondo, e che ha il merito di riagganciare la lotta per i diritti alle responsabilità collettive, ha nella protezione della vita un target da perseguire in ogni forma e in ogni specie, da quella umana a quella animale, a quella vegetale, fino alla difesa di quell’ecosistema che pure vita in senso tecnico non è, ma che con la sua preservazione la vita garantisce.

 

Ho usato il paradigma del principio di precauzione perché mi pare il più adatto ai tempi, per interpretare e giustificare la protezione della vita. Si tratta, com’è noto, di un criterio di condotta coniato in Germania alla fine degli anni Settanta, per definire un livello di compatibilità tra lo sviluppo tecnico-scientifico, necessario al progresso dell’umanità, e il controllo dei rischi e delle minacce associate a tale sviluppo. Ispirandosi alle esigenze di tutela dell’ambiente e della salute umana, animale e vegetale, e tenendo conto delle necessità vitali non solo delle generazioni presenti, ma anche di quelle future, esso rappresenta quella che potremmo definire una bussola nel dubbio dell’agire. Trasposto nel campo che è oggetto della nostra riflessione, non ti pare che il principio di precauzione dovrebbe informare le politiche pubbliche alla protezione della vita, in quanto valore laico e universale, anche in tutte quelle condizioni in cui la vita può apparire dimidiata da gravi compromissioni o è destinata a cessare in un tempo presumibilmente breve?

 

Ora prendiamo pure atto che il darsi morte è una facoltà della condizione umana, e riconosciamo che la rinuncia alle cure e a ogni trattamento di sostegno vitale è un diritto dell’uomo, per congedarsi da una vita che egli, soggettivamente, non ritiene più compatibile con il proprio concetto di dignità. Ma può lo Stato fornire, a richiesta, morte o aiuto al suicidio senza il rischio che quello “spazio libero da diritto” venga occupato da un diritto altrettanto pervasivo, che pretenda di misurare e stabilire la dignità della vita con parametri oggettivi? Immagino la tua obiezione a questo interrogativo: mi dirai che il rischio non sussiste se la volontà individuale resta il dominus di questa valutazione. Mi chiedo tuttavia se una simile impostazione, fondata su un concetto di dignità auto-percepita dal soggetto, non modifichi il fondamento di tutela del bene vita: cosicché l’ordinamento non protegge più la vita in sé e per sé, ma il bene vita fintantoché il suo titolare lo voglia. Certe confusioni avvengono nella cultura, prima ancora che nella prassi. Non ti pare che l’altra faccia del soggettivismo, che riconsegna la disponibilità del vivere e del morire all’arbitrio individuale, sia un materialismo che considera la vita indegna sotto una certa soglia di parametri e teorizza quasi un dovere di darsi morte, coniugandosi con un’ideologia scientista che punta, grazie alla tecnica, a estirpare il dolore dalla vita? Non cogli accenti di questo tipo nel pensiero di molti tra coloro che si sono battuti per sostenere il diritto al suicidio di Stato?

 

La Consulta dimostra di aver chiaro questo rischio, quando individua quattro condizioni tassative per depenalizzare l’aiuto al suicidio: tre oggettive, la malattia irreversibile, l’essenzialità dei trattamenti di sostegno vitale e la libertà consapevole di decidere; e una sola soggettiva, il dolore fisico o psichico ritenuto dal malato intollerabile. Quest’ultimo presupposto non pare, nella prospettazione della Corte, né prevalente rispetto agli altri né considerabile separatamente. I quattro criteri stanno rigorosamente insieme a circoscrivere la platea di coloro che potrebbero, in base a una legge futura, richiedere allo Stato l’esecuzione di ciò mi preme definire “rimedio del suicidio”. Ma se, come tu stesso hai argomentato, il motivo per sostituire in alcuni casi la sedazione profonda con il sostegno al darsi morte è un diritto a vincere il dolore, è altissimo il rischio che nella legge e nella prassi il legame tra le quattro condizioni prescritte venga meno. Se il dolore soggettivo è il valore a cui subordinare la protezione della vita, chi può stabilire chi soffre di più? In nome del principio di uguaglianza, il diritto alla cessazione del dolore consentirebbe a platee sempre più ampie di pretendere morte, congedandosi da una vita divenuta intollerabile, o addirittura non all’altezza delle aspettative che un certo modello culturale impone.

 

Non sarebbe questa un’inconsapevole sostituzione di un diritto del bilanciamento e della precauzione con un diritto dell’arbitro individuale, dietro il quale si disegna un’astratta pianificazione dell’esistenza che pretenda di eliminare il dolore dalla vita? Purtroppo il pensiero approda a conseguenze inintenzionali, quando rinuncia a considerare il limite come il contenuto della libertà. Perciò mi chiedo e ti chiedo, caro Vittorio, che cosa avrebbe da scambiare il nostro comune liberalismo civile con un esito materialista ed edonista di questo tipo.

 


   

Caro Alessandro,

la premessa da cui muovono le tue domande trova in me particolare condivisione: anche al di là del caso di specie, credo che sia davvero da salutare con favore – se non con positivo stupore – la ritrazione del diritto penale, e la rinuncia a far uso di uno strumento ormai considerato irrinunciabile misura rimediale per ogni problema sociale, surrogato necessario di politiche pubbliche inconsistenti o inefficienti, persino metro e sostitutivo dell’etica pubblica.

Il diritto penale non può servire a questo, né la pena può essere strumentalizzata sino farne il censore di ciò che è “giusto” o meno, di ciò che si considera etico o immorale.

 

Lecita anche la scelta di chi accoglie la richiesta di aiuto:
dunque una libertà parallela in chi presta assistenza,
pur dovendosi riconoscere una pari libertà di rifiutare l’aiuto
al suicidio da parte del medico che non condivida la scelta 

 

Ciò detto, e tornando al tema che ci occupa, “spazio libero dal diritto penale” non significa certo “spazio libero dal diritto tout court”: anzi, nel varco aperto dalla sentenza della Corte – come gli stessi giudici evidenziano – è urgente che intervenga il legislatore, per dirimere con la legge i delicati bilanciamenti che si pongono, e il conflitto tra i valori supremi della vita e della dignità umana.

 

Mi limito, al riguardo, a tre sole considerazioni.

La prima, più generale, è che nello Stato costituzionale di diritto non sono le libertà personali, ma le rispettive limitazioni a dover essere giustificate. Il principio di fondo dovrebbe essere costituito dal rispetto della libera scelta della persona, principio a cui lo Stato può derogare per tutelare interessi di pari rango o anche per tutelare la stessa persona qualora la stessa versi in condizioni di vulnerabilità che impediscano la formazione di una volontà davvero libera e consapevole.

 

La seconda – più immediatamente riferibile alla “scelta tragica” tra i valori in gioco – è che la indiscutibile primazia del valore della vita, quando si inquadra in un contesto di malattia, sofferenza e dolore, si misura con una condizione nella quale la scelta di morire non è manifestazione di una truculenta volontà di autoannientamento come espressione cieca di massima libertà, ma richiama in campo, piuttosto, un valore altrettanto primigenio e fondativo della stessa persona quale, appunto, la dignità del malato, secondo un concetto che ha basi oggettive ma che è inevitabilmente aperto a valutazioni soggettive di chi è protagonista di una esperienza di dolore eccezionalmente drammatica, aggrappato a una esistenza sorretta da presidi tecnologici che non considera più dignitosa.

 

La terza è che una tecnologia senza umanità e senza pietas diventa tecnocrazia, dove la stessa vita umana è funzione dello strapotere tecnico, e non più il contrario: un mondo in cui – ha ragione Paul Ricoeur – all’ipertrofia dei mezzi corrisponde spesso l’atrofia dei fini.

 

Non credo, peraltro, che sia necessario evocare il principio di precauzione, che è una modalità di intervento preventivo generata da contesti di incertezza scientifica. E non riesco a vedere esisti edonistici o materialistici come ineluttabile deriva rispetto a questa decisione, se si rispettano le specifiche condizioni che la Corte ha chiarito nella sua “tetralogia” (malattia irreversibile, protratta grazie a sostegni vitali, accompagnata da sofferenze fisiche o psicologiche, in soggetto lucido e consapevole): non è certo una valutazione puramente soggettiva, rimessa all’arbitrio, all’edonismo o al nichilismo del singolo, ma è ancorata – e mi verrebbe da dire, “inchiodata” – a criteri oggettivi che fondano, e limitano, lo spazio di questa possibilità di scelta drammatica.

 

Possibilità di scelta che non evoca certo un “dovere di morire” e neppure, forse, un “diritto di prestazione”, ma una libertà di chiedere un aiuto nel congedarsi da un vita non più dignitosa, a cui corrisponde – alle condizioni oggettive e soggettive precisate – la liceità della scelta di chi accoglie la richiesta, dunque una libertà parallela in chi presta assistenza, pur dovendosi riconoscere una pari libertà di rifiutare l’aiuto al suicidio da parte del medico che eventualmente – per convinzioni personali, etiche o religiose – non condivide quella scelta.

L’“indispensabile intervento del legislatore” – come ha evidenziato ancora la Corte – dovrà disciplinare molti di questi aspetti, precisando anche opportunamente – magari – i criteri anticipati dai giudici, e operando appunto un delicato ma doveroso bilanciamento, attento alla specificità dei singoli casi, tra tutti i diritti fondamentali coinvolti, la nostra unica religio civilis.

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