Condannati a morte

Alfredo Mantovano

Introdurre il suicidio medicalizzato nel Sistema sanitario nazionale non ha niente a che fare con la dignità. Un seminario a Roma

Pubblichiamo un estratto dell’intervento che Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro studi Livatino, terrà oggi aprendo il seminario “Diritto o condanna a morte per vite inutili?”. Interverrà la professoressa Assuntina Morresi, membro del Comitato nazionale di bioetica. Il seminario è in programma alle ore 15 a palazzo Maffei Marescotti a Roma (Via della Pigna 13/A)

 


 

Con tutto il rispetto per la Consulta, ho qualche dubbio che assegnare al Parlamento i compiti da svolgere, e financo il tempo entro cui svolgerli, realizzi quella “leale e dialettica collaborazione istituzionale” (§ 11 del provvedimento) cui pure la Corte afferma di ispirarsi. Taccio pure che la forma del provvedimento della Consulta è una ordinanza di rinvio, cioè un provvedimento che in genere richiede una motivazione telegrafica: l’ordinanza n. 207 si estenda invece per pagine, assumendo la struttura, l’articolazione e la sostanza di una sentenza di illegittimità, se pure a effetto procastinato.

 

Nelle leggi e nelle sentenze la forma è sostanza. Ma vorrei lasciare a margine i profili formali e concentrarmi sui contenuti. Il primo dato che emerge è l’oggettiva incoerenza fra la prima e la seconda parte della motivazione dell’ordinanza 207. Nella prima parte, in particolare al § 6, è scritto che “l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei – è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”. Si aggiunge che “il divieto in parola conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimuovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.)”.

 

Trovo difficile, alla stregua della chiarezza di queste affermazioni, conciliarne il contenuto col seguente passaggio, nel quale ci si imbatte al § 10: “Una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta (…)”.

 

Una contraddizione così significativa non può essere ignorata , anzitutto dal Parlamento, che è chiamato a una scelta netta: o la solidarietà nei confronti chi si trova in una condizione di debolezza, e quindi ha necessità di sostegno per affrontare quella situazione (assistenza domiciliare, hospice, cure palliative…), come indicano la prima e per certi aspetti l’ultima parte dell’ordinanza. Oppure l’aiuto a trovare la morte, facendo sì che una sostanza somministrata costituisca il solo seguito a una richiesta di aiuto spesso disperata di chi versa in quella situazione, e questo orienta la seconda parte dell’ordinanza e larga parte delle pdl incardinate davanti alle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali della Camera dei deputati.

 

Credo che si possa venire a capo del dilemma se ci si ferma su un aspetto centrale dell’ordinanza. Sia la Corte costituzionale che più d’una delle pdl presentate in materia di eutanasia pongono in correlazione l’autodeterminazione del paziente con la dignità umana: al § 9 dell’ordinanza n. 207 si sostiene che la limitazione dell’autodeterminazione a prima comporterebbe una lesione della dignità. E nelle pdl questo nesso viene inserito o nel primo articolo o nella relazione.

 

L’autodeterminazione è molto importante nella vita di ciascuno di noi, ma non è senza limiti. I limiti sono identificabili nel rispetto dell’altro, ma pure nella natura non disponibile del bene: per un lavoratore dipendente le ferie sono indisponibili, non può rinunciarvi, e quindi sul loro obbligatorio godimento non ci si può autodeterminare (la vita dell’uomo fino a non molto tempo fa era ritenuta bene non disponibile).

 

Non è così per la dignità dell’uomo: essa non ha né limiti né condizioni. Il condannato per i crimini più orrendi non perde la dignità di uomo, qualunque cosa abbia fatto, mentre è fortemente limitata la sua autodeterminazione a vivere libero. Quando l’art. 27 comma 3 Cost. sancisce che “le pene (tutte, anche l’ergastolo) non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, sottolinea esattamente quest’aspetto, che ha trovato applicazione perfino nei confronti di Totò Riina. La dignità di un uomo è di tale rilievo che sopravvive alla morte, tant’è che fonda la pietas che riserviamo ai nostri defunti.

 

Parlamento o Corte costituzionale intendono introdurre il suicidio medicalizzato nel Ssn? Lo facciano in nome non della dignità, se il riferimento è il rispetto della volontà di morte del paziente, bensì di una autodeterminazione spinta all’estremo.

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