Antonio Pennacchi (foto LaPresse)

Sul perché si diventa scrittori

Antonio Gurrado

Scrivere libri è una specie di scalinata in cui la penna sarà il bastone ma a ogni gradino c’è una carota

Ma allora non c’è speranza! Mi sono sempre chiesto perché uno debba voler diventare scrittore e mi sono sempre risposto con la strategia dei traguardi intermedi. Sarebbe: uno inizia a scrivere per poter fare un lavoro meno faticoso; dopo di che, continua a scrivere per arricchirsi vendendo sempre più copie; quindi continua ancora per diventare così famoso da potersi permettere di dire ciò che gli pare; poi per riscuotere in vita la gloria concreta, gli applausi, le ospitate, premi su premi. È una specie di scalinata in cui la penna sarà il bastone ma a ogni gradino c’è una carota. Oggi però ho letto l’intervista ad Antonio Pennacchi sul Corriere e la mia convinzione ha vacillato. Pennacchi mi piace, Pennacchi ha tutto, Pennacchi è arrivato in cima alla scalinata: ha smesso di fare l’operaio; ha firmato fior di bestseller; ha potuto permettersi di rimanere se stesso; ha vinto lo Strega dieci anni fa, ripeto dieci anni fa. Eppure è ancora lì che scrive e ammette candidamente che non gli piace affatto, va avanti – per inerzia, per senso del dovere, per sovrabbondanza di parole nell’anima – senza saper spiegare bene il perché. E io credevo che uno volesse diventare scrittore per poter smettere di scrivere.

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