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Perché finanziare la ricerca col crowdfunding non fa bene all'università

Antonio Gurrado

Se lo sviluppo dei progetti è subordinato alle offerte di una giuria popolare su Facebook significa che non abbiamo futuro

La notizia della ricercatrice universitaria di Torino che ha ottenuto finanziamenti col crowdfunding su Facebook è buona per lei ma non altrettanto per l’università. Sia perché sottoporre la ricerca al giudizio popolare (e il versamento di un obolo è il giudizio più sincero che esista: l’organo più sensibile del nostro corpo è il portafoglio) prefigura un futuro in cui la cernita dei progetti di ricerca cui garantire sopravvivenza sarà affidata sui social a chi non ha gli strumenti per coglierne rilevanza e utilità. Sia perché il popolo è spilorcio o, quanto meno, dona il poco che si ritrova: in tutto la ricercatrice ha racimolato undicimila euro, che le consentiranno di lavorare fino a ottobre. E poi ci si rivolgerà a Instagram o a Twitter? L’esultanza dell’università per la bella notizia della ricerca finanziata dal crowdfunding coincide con l’ammissione di non essere in grado di pagare qualcuno per sei mesi.

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