Un migrante disteso un una panchina in un parco di Como. Molti di loro tentano di attraversare il confine con la Svizzera (foto LaPresse)

I numeri di un modello

L'Italia accoglie ma non integra. Lezioni tedesche su lavoro e immigrazione

Oltre la proposta Morcone. In Germania  il richiedente asilo può lavorare quasi subito; ha obblighi su lingua e formazione.

Roma. C’è un solo modo per integrare i migranti che chiedono l’asilo, il lavoro, mentre tutto il resto serve solo per far lavorare chi vive o fa affari, a volte sporchi, sulla loro accoglienza. Anche la recente proposta di Milena Gabanelli pubblicata dal Corriere della Sera non fa distinzione tra due attività molto diverse, che richiedono competenze e strutture non sovrapponibili: l’accoglienza e l’integrazione dei migranti. Viceversa ieri il capo dipartimento immigrazione Mario Morcone, sempre sul Corriere, coglie la necessità che i profughi lavorino per integrarsi, ma senza indicare attraverso quali strutture d’intermediazione tra domanda e offerta e affidando tutto alla buona volontà dei sindaci. L’esempio della Germania, che ospita il maggior numero di richiedenti asilo in Europa (442 mila domande nel 2015, a fronte delle 83 mila in Italia), è illuminante: nei centri di prima e di seconda accoglienza tedeschi si provvede al vitto, all’alloggio, all’erogazione di un sussidio (massimo 392 euro al mese), all’assistenza sanitaria e al corso obbligatorio di tedesco, mentre il centro per l’impiego inizia dopo pochi mesi i colloqui d’orientamento per verificare se le competenze professionali del richiedente asilo corrispondono a quelle richieste dalle imprese ed eroga gli altri servizi di politica attiva, tra i quali la formazione professionale, i tirocini, l’apprendistato e soprattutto l’inserimento lavorativo. La permanenza nei centri di prima accoglienza è molto breve (3 mesi) perché è essenziale per il processo d’integrazione che l’avviamento al lavoro, anche con occupazioni di breve durata, inizi subito.

 

La seconda accoglienza presso alloggi decentrati distribuiti nel territorio della Germania in modo proporzionato agli abitanti, per impedire la creazione di concentrazioni e di ghetti, si limita a erogare l’eventuale sussidio (solo per i non occupati) e la bicicletta per raggiungere il posto di lavoro o il centro per l’impiego locale se non l’ha ancora trovato o per frequentare i corsi di formazione professionale. Con la nuova proposta di legge approvata dal governo di coalizione di Angela Merkel, i richiedenti asilo potranno essere impiegati, senza perdere i sussidi, anche negli “ein-euro-jobs”: impieghi pagati da uno a 2,5 euro l’ora per un massimo di 20 ore settimanali, che hanno come obiettivo dichiarato di mantenere attivi i migranti, consentendo loro di familiarizzare con il mercato del lavoro e di parlare tedesco con i colleghi.

 

Lo scambio fra il paese ospitante e il richiedente asilo si basa su due princìpi molto chiari: promuovere (nel senso di aiutare, anche con sussidi e servizi, a integrarsi) e pretendere, fördern und fordern. In soldoni, significa che se non frequenti i corsi di lingua, di educazione civica, professionali e le altre misure d’integrazione, perdi tutte le prestazioni sociali.

 

In ogni caso, nei confronti dei migranti cui non viene concesso il diritto d’asilo, la Germania applica una misura di “tolleranza” (duldung) all’insegna del puro pragmatismo: concede una sospensione temporanea dell’espulsione, rinnovabile, nel caso sappiano parlare il tedesco e siano in grado di provvedere al proprio sostentamento con il lavoro.

 

L’Italia, che ha un apparato militare e di protezione civile eccellente per il soccorso in mare dei migranti, ha invece strutture di primissima accoglienza indecenti e, fatta eccezione per gli Sprar, un sistema per l’accoglienza di lunga durata disastroso. Oggi, con la chiusura dei confini, l’Italia è sempre meno paese di transito e sempre più residenza finale dei richiedenti asilo, ma mancano completamente politiche attive per l’integrazione. Decine di migliaia di stranieri sfaccendati finiscono per vagare a vuoto per le città e i comuni anche piccoli, rischiando di scivolare nella microcriminalità e generando un senso di insicurezza e di allarme nei cittadini, pur sulla base di motivazioni spesso infondate. E’ bene precisare che la legge consente ai migranti di lavorare già dopo due mesi dalla presentazione della domanda d’asilo.

 

Soprattutto in Italia mancano, diversamente dalla Germania, servizi per l’impiego pubblici e privati in grado di erogare con efficacia ai migranti, tanto quanto al milione di disoccupati italiani, la formazione professionale e l’avviamento al lavoro, nonostante il Jobs Act vincoli, in teoria, l’erogazione del sussidio di disoccupazione alla frequenza a corsi di formazione e all’accettazione dell’offerta congrua di un posto di lavoro da parte del centro per l’impiego. In realtà, solo lo 0,4 per cento degli immigrati e l’1,8 per cento degli italiani trova l’attuale lavoro attraverso un centro pubblico per l’impiego (25 per cento in Germania).

 

La prima (ma non unica) ragione dell’inefficacia dei centri pubblici per l’impiego è il sottodimensionamento del personale: in Germania per fornire i servizi per l’impiego ai nativi e ai migranti la bundesagentur für arbeit ha 110 mila addetti (26 disoccupati per addetto); il Regno Unito, che ha tagliato ferocemente i posti pubblici da alcuni decenni, ritiene più conveniente, come si dimostra subito dopo, stipendiare i 78 mila operatori dei job centre plus (20 per addetto); la Francia ha circa 50 mila addetti nei pôle emploi (65 per addetto); in Italia, gli operatori dei Centri pubblici per l’impiego (Cpi) sono passati dai 9 mila del 2013 (ogni operatore ha in carico 254 disoccupati: il valore più elevato in Europa) ai 7.500 attuali, in seguito all’abolizione delle province da cui dipendevano (vedi il grafico qui sotto).

 

 

Desta una certa sorpresa rilevare che il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), che garantisce sicuramente un’ottima accoglienza dei migranti, ma nessuna attività d’inserimento lavorativo (non è previsto tra i suoi obiettivi), ha 8.300 operatori per assistere solo 21 mila richiedenti asilo (il 28 per cento del totale).

 

E’ chiaro cosa dovrebbe fare l’Italia, per dotarsi di un efficace sistema d’accoglienza e soprattutto d’integrazione dei 150 mila migranti che ogni anno sbarcano sulle nostre coste e dei 120 mila cui è stata, a oggi, respinta la domanda di asilo e che in gran parte sono rimasti in Italia, probabilmente a lavorare in nero: adottare e adattare il modello tedesco, aumentare il numero degli addetti dei centri per l’impiego portandolo almeno al livello della Spagna (21 mila) e dare un permesso di soggiorno ai 120 mila migranti respinti che effettivamente lavorano e che conoscono l’italiano. Si coglierebbero insieme due obiettivi: avviare serie politiche d’integrazione dei migranti attraverso il lavoro e impedire il fallimento di una parte fondamentale del jobs act, a causa dell’obiettiva impossibilità dei Cpi di attuarlo.

 

I risparmi in termini di welfare assistenziale

Oltretutto, l’assunzione di un numero congruo di operatori per le politiche di formazione e orientamento dei Cpi potrebbe essere finanziata con i fondi comunitari dell’Fse, attualmente sprecati dalle regioni, e aiutare disoccupati e migranti a trovare un lavoro in tempi più brevi: farebbe risparmiare un mucchio di soldi attraverso la riduzione dei tempi d’erogazione dei sussidi di disoccupazione. Solo due cifre: nel 2010 (ultima data disponibile dal database Eurostat) il Regno Unito ha speso 5,7 miliardi di euro per pagare gli stipendi dei 78 mila operatori dei loro centri per l’impiego pubblici e 5,3 miliardi per i sussidi ai disoccupati, grazie al fatto che il 75 per cento di loro trova un lavoro entro 6 mesi; l’Italia ha investito solo 474 milioni per i suoi 9 mila addetti dei Cpi, ma ha erogato sussidi di disoccupazione per un valore quattro volte quello britannico (21 miliardi, diventati 25 nel 2014), perché i suoi centri riescono a trovare lavoro a un numero insignificante di disoccupati.

 

Insomma, applicare un modello rispettoso del diritto nazionale e internazionale, rigoroso ed efficace di accoglienza e integrazione dei migranti è possibile, sostenibile dal punto di vista finanziario e aiuterebbe anche a far decollare una delle più importanti riforme del mercato del lavoro italiano, dopo quella di Marco Biagi.

 

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