Il Muro di Huy è uno spettacolo, ma sta spegnendo la Freccia Vallone

Giovanni Battistuzzi
E' dal 1985 che si arriva lassù. La Fléche Wallonne però nelle ultime edizioni è diventata un'attesa dell'ultimo strappo, il più cattivo delle classiche del nord. E' dal 2003 che una fuga non va in porto, che il copione è sempre lo stesso: si aspetta il muro e lì e solo lì si decide la corsa.

Lo scenario è magnifico, il finale emozionante, sempre. Una lingua di asfalto che si inerpica verticale, talmente all’insù che fa male il collo a cercare di capire dove va a finire. Due metri e poco più di carreggiata che fa da spartiacque tra la fatica e il riposo, tra l’impresa e i musi lunghi, tra il festival e il dopofestival. Perché di concorso si tratta. La Freccia Vallone è diventata una competizione per fachiri, una scalata a denti stretti, al massimo a lingua in fuori, sopportazione dell’acido lattico che inonda e rattrappisce i muscoli. La Freccia Vallone è il Muro di Huy, un chilometro e trecento metri che sale al 9,2 per cento medio, che poi in realtà sono circa novecento metri a oltre il 12 per cento, perché nei primi quattrocento metri la strada si prepara alla vertigine.

 

Trentuno anni di ascese finali. Inaugura tutto Claude Criquielion nel 1985. Crique era atleta quadrato, pedalatore di classe, uno che quando c’era da lottare era sempre in testa, ma che non vinceva mai. O quasi. Quel giorno però, il 17 aprile, davanti a quel muro si ritrova da solo, il resto del gruppo l’ha seminato sulle salite precedenti. Non poteva perdere. Lo scala forte, ma gustandosi la gente attorno, scoprendo in fretta l’effetto che fa la solitudine. Lo scala sempre in piedi, mostrando ai connazionali l’iride sulla maglia, ricordo del campionato del mondo vinto nell’autunno precedente a Barcellona, su di un altro strappo mitico, quello del Montjuïc, lo stesso che nel 1973 vide Felice Gimondi battere sua maestà il Cannibale, Eddy Merckx.

 

 

Da allora il Muro di Huy è divenuto il crocevia di qualsiasi speranza e ambizione. E’ diventato prima giudice supremo della corsa, o meglio pontefice massimo data l’ambientazione. L’erta è Muro di Huy solo una volta l’anno, il giorno della Fléche, massimo due se lassù decidono di arrivare altre corse. Huy vive sotto la collina, incastonato lungo la Mosa. Per tutto l’anno il Muro è altro, è Chemin des Chapelles, cammino delle cappelle, un santuario verticale ritmato da sette cappelle al bordo della strada, sette stazioni di preghiera prima di giungere alla basilica di Notre-Dame de la Sarte, lì dove all’ombra del campanile termina la corsa.

 

E’ un luogo venerato da credenti e ciclisti, un pellegrinaggio di fede e biciclette, che però almeno nel secondo caso da giudice si è trasformato in dittatore. La Freccia è diventata il Muro. Null’altro. La Freccia è diventata un peregrinare sino alle sue pendici, un girovagare per le Ardenne, una lunga attesa per incontrarlo, per vedere chi resiste e chi piega le resistenze altrui. E’ dal 2004 che la Freccia Vallone è diventato questo. L’ultimo azzardo andato a buon fine è stato quello del basco Igor Astarloa l’anno precedente: lo spagnolo era fuggito dal gruppo 135 chilometri prima con altri quindici avanguardisti, rimasero soli, raggiunsero prima degli altri il traguardo.

 

 

Da allora la Fléche è diventata sprint d’arrampicata, corsa compatta sino alla svolta per imboccare il Chemin e poi barbaro pestaggio ruota contro ruota. E’ diventata testa a testa, prova di resistenza al dolore. E’ diventata finale emozionante, un trattenere il fiato per tre minuti, ma rush finale di un canovaccio prestabilito al quale è permesso solo di improvvisare gli ultimi interpreti, il luogo esatto della beatificazione di uno e della dannazione degli altri.

 

 

Non è però colpa del Muro se la Fléche non è più “la corsa più ingestibile e meno giusta che ci sia al nord”, come disse Eddy Merckx alla Gazzetta dello Sport all’arrivo di Verviers (per cinque edizioni dal 1974 al 1979) nel 1975. Lì il Cannibale venne battuto allo sprint dai connazionali André Dierickx e Frans Verbeeck. “Sono i corridori che trasformano in romanzo e in epica il racconto ciclistico”, scrisse vent’anni fa l’ex direttore della rosea Candido Cannavò. E sono loro a intenderla così ora la Freccia, sono loro ad averlo trasformato in dittatore. Servirebbe una rivolta, uno stravolgimento. Se arriverà sarà tripudio, altrimenti il solito spettacolo, sicuramente appassionante, ma il solito copione, affascinante ma già visto.

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