
Paolo Cocchi
I miei sei anni di kafkiano calvario giudiziario
E oggi come sta? “Bene, finalmente. Contento che sia finita nell’unico modo in cui poteva finire. Ma sono stati sei anni faticosi, che hanno cambiato la mia vita e avvelenato quella della mia famiglia. E interrotto la mia esperienza politica. Ora è finita bene. Io faccio il pasticcere”. Paolo Cocchi, ex assessore alla Cultura e al Commercio della regione Toscana, ieri mattina è stato assolto con formula piena (insussistenza dei fatti) in un processo che lo vedeva imputato per corruzione sulla base di un’inchiesta sull’urbanistica nel Mugello iniziata nel 2008. Un’inchiesta che lo ha coinvolto nel 2010 e che – per quanto lo riguarda – non avrebbe nemmeno dovuto arrivare al dibattimento. Però intanto, per lui, sono passati sei anni. Sei anni che gli hanno rovinato la vita.
La storia è così lunga che necessita di una tappa intermedia. Il 21 gennaio del 2013 Paolo Cocchi era stato prosciolto dal Giudice dell’udienza preliminare di Firenze, Silvia Cipriani. L’indagine, coordinata dal pm fiorentino Leopoldo De Gregorio e condotta dalla Polizia stradale, riguardava alcune lottizzazioni a Barberino del Mugello, di cui Cocchi era stato sindaco nel decennio precedente. Secondo i pm, tramite alcune “sponsorizzazioni” e legami di amicizia, qualche imprenditore sarebbe stato favorito. Però il Gup aveva sentenziato che quelle accuse erano inconsistenti, e di prove neanche l’ombra. Intanto Cocchi era stato indagato per abuso d’ufficio, aveva dovuto dimettersi dalla carica e dire addio alla politica. Ma era il 2013, e finalmente la vicenda sembrava conclusa, con la formula più netta: il fatto non sussiste. Il presidente della regione Enrico Rossi commentò su Facebook: “Sono contento ma penso alla sofferenza che Paolo deve aver patito in tutti questi anni”.
Ma era una tappa intermedia, appunto. Perché nonostante il plateale esito negativo del primo giudizio, la procura aveva opposto ricorso in Cassazione, la quale aveva annullato il proscioglimento, rinviando a un nuovo giudizio Cocchi, sua moglie Barbara Bardazzi, l’ex sindaco di Barberino del Mugello, Gian Piero Luchi, ed altri amministratori. Il processo è iniziato nel maggio 2015. E ieri Paolo Cocchi è stato (di nuovo) assolto. Il fatto (continua) a non sussistere. Anche perché nel processo l’accusa non ha presentato elementi nuovi, rispetto a quelli già giudicati inconsistenti nel 2013. Chiamatela Giustizia che funziona, e garantisce i diritti dei cittadini. “Le dirò di più”, racconta al telefono Cocchi: “Nel 2011, i pm cambiarono e aggravarono la mia accusa, da abuso d’ufficio a corruzione, e per ben due volte chiesero il mio arresto. E per due volte il giudice che doveva firmare la richiesta invece denegò il provvedimento. La seconda volta, il Gip Paola Belsito scrisse nelle motivazioni che, in pratica, nemmeno si capiva bene quale fosse il reato”.
Per completezza di cronaca: l’inchiesta sull’urbanistica a Barberino – dove Cocchi era stato sindaco da 1990 al 1999, ma l’ipotesi riguarda irregolarità tra il 2002 e il 2008 – verteva sulla costruzione di un outlet e del nuovo casello autostradale, e altre cosucce. L’accusa ipotizzava un aiuto all’amico imprenditore Danilo Cianti, della Mugello Lavori. Amicizia mai negata, solo che non esiste alcun atto pubblico di Cocchi (a quel tempo consigliere prima in provincia e poi in regione) che riguardi anche alla lontana Cianti o i suoi affari. Pure l’imprenditore è stato assolto dall’accusa di aver corrotto Cocchi.
Sempre per la cronaca: secondo la Cassazione il Gup Cipriani aveva (erroneamente) fondato “le sue decisioni soltanto su alcune fonti di prova trascurandone altre”. Gli aspetti trascurati, “tutt’altro che marginali e secondari”, erano del tipo: Cocchi avrebbe fornito all’amico Cianti informazioni riservate “proprio in forza della carica pubblica da lui ricoperta”, nonché “la sponsorizzazione e quindi l’assicurare a un imprenditore un trattamento di favore da parte dei rappresentanti delle pubbliche amministrazioni”. “Le racconto due particolari – dice Cocchi – Io ho le orecchie a sventola, mi chiamano ‘orecchione’. Nella telefonata intercettata che avrebbe dovuto accusarmi c’era un tale che diceva di avere ‘sentito a oreccchio’, eccetera. Tanto bastava perché ci fosse un collegamento diretto con me. Per l’accusa, poi, c’è una casa che mi sarebbe stata regalata dall’imprenditore amico: ma è stata acquistata con un mutuo, che ancora pago. Possibile che ci siano voluti sei anni a verificarlo? Io credo che ci sia anche un’incapacità della macchina inquirente ad accertare le prove”. Così, per la seconda volta, un giudice ha stabilito che non era nulla di che.
Una domandina sui motivi di tanta (mal riposta) insistenza da parte della magistratura inquirente nella gestione di un caso tanto fragile, bisognerebbe proprio porsela. Ed è una domanda a risposte multiple. Alcune risposte dovrebbe darle l’informazione, magari: ieri nessuna agenzia ha riportato la notizia dell’assoluzione di Cocchi fino a tarda sera (l’Ansa se ne è accorta alle 19). Nemmeno la pagina fiorentina di Repubblica, ferma alla richiesta di condanna dei pm dell’8 marco (due anni). Nemmeno il Corriere fiorentino che nell’ottobre 2015 aveva raccontato della sua nuova vita da pasticcere. Su GoogleNews, gli articoli più recenti rimandano al processo da rifare. Eppure, la campagna mediatica sull’inchiesta era stata forte ed efficace, come sempre. Ma anche per la magistratura, il caso di Barberino del Mugello dovrebbe costituire materia di riflessione.
Cocchi riepiloga, con la voce bassa, come provando a spiegare le cose prima di tutto a se stesso. “Ciò che ho constatato è che esiste un peso del circo mediatico praticamente incontrastabile. Se ti accusano di corruzione, basta quello. Non esiste il contraddittorio, non ci sono gli innocentisti e i colpevolisti, come nei film. C’è come un terrore a dire le cose, a raccogliere una versione diversa dei fatti”. E’ un meccanismo ben noto, non c’è bisogno di dilungarsi. E nemmeno il rapporto tra magistratura e giornali. Sulla sua vicenda, in attesa della conclusione, Cocchi ha trovato il tempo di scrivere un libro “sotto forma di romanzo”. Si intitola “La bilancia smarrita”, l’ha pubblicato la fiorentina Polistampa. Ci sono riflessioni anche sul cattivo funzionamento del sistema di Giustizia. Sei anni di vita avvelenata aiutano a riflettere. “La mia considerazione è questa. Una volta messa in moto la macchina inquisitoria, l’eco pubblica e mediatica, che si sposa con un atteggiamento sociale di populismo, di giustizialismo, è tale, e così forte, che la stessa macchina della Giustizia nel suo complesso deve come ammortizzare, deve andare molto lenta nello smentire. Perché altrimenti, in un caso come questo, dovrebbe smentire in un attimo tutto un castello di indagini. Io dico sempre: se fossimo in America, con un’accusa di corruzione io nel settembre 2011 sarei stato arrestato. Ma nell’ottobre 2011 sarei stato prosciolto. E lo avrei preferito. Invece ci sono voluti sei anni, sei anni, per accertare fatti e cose che erano già evidenti nel 2011, nella motivazione che negava il mio arresto, e poi nel 2013 in quelle del Gup”. Di certo, l’appartenenza allo stesso ordine tra magistratura giudicante e inquirente non aiuta, ma ci sono anche meccanismi più complessi. Cocchi non vi accenna, ma c’è il problema del ricorso in Cassazione da parte della procura – il procuratore della Repubblica presso il Tribunale – di fronte a una sentenza di proscioglimento di un giudice monocratico. E’ prevista dai codici, certo. Ma da anni esiste anche un serrato dibattito tra giuristi se non sia il caso di limitare la possibilità dei pm di appellarsi contro le sentenze di proscioglimento. E’ un caso specifico, se vogliamo, dell’assurdità tutta italiana per cui è possibile essere processati due volte per lo stesso reato, una volta giudicati innocenti.
Ma nel frattempo, di anni ne sono passati sei. Sei anni che hanno prostrato moralmente, e anche fisicamente, il protagonista-presunto colpevole (la presunzione sarebbe di innocenza, già) di questa sconcertante vicenda. Hanno rovinato la vita di una famiglia, della moglie, dei figli di Cocchi. Che invece è un uomo di cui vale la pena fare la conoscenza. E non soltanto perché, all’epoca in cui iniziò il suo calvario kafkiano, era uno dei politici toscani più stimati, e considerato in ascesa. Nato a Barberino di Mugello nel 1958, dove ancora vive, una laurea in Filosofia morale su psicanalisi e marxismo, Cocchi ha militato nel Pci dal 1976. Ha fatto vari mestieri, anche il pubblicitario. Sindaco della sua città per un decennio, dal 1996 era membro della segreteria regionale dei Ds. Consigliere provinciale, poi regionale dal 2005, nel 2007 era diventato assessore regionale alla Cultura, Turismo e Commercio della Toscana. Dopo l’inizio delle traversie giudiziarie, ha affrontato anche una difficile situazione economica, la famiglia ha dovuto vivere con lo stipendio della moglie, la situazione psicologica faticosa. Ma questo lo dicono più gli amici, che non lui. Ora fa il pasticcere, “e lo farò fino a età pensionabile”, in un ristorante-negozio-laboratorio sulle rive del lago di Bilancino, avventura in cui l’ha coinvolto un amico imprenditore. Lui giura che gli piace. Ma per l’uomo che è, figlio di un partigiano, una vita di passione politica, è un’altra cosa, e lo sa anche lui.
Quel che pesa, però, è soprattutto la frattura che avverte in sé, tra l’uomo e il politico di prima e quello di oggi. Lo “scetticismo”. “No, non tornerò mai più in politica, ammesso di sapere da che parte. Sono molto sfiduciato, soprattutto dal rapporto tra politica, magistratura, media”. E tralasciate le riflessioni strettamente personali, e quelle legate all’assurdità della sua vicenda giudiziaria, sono gli insegnamenti legati alla politica e al “carattere degli italiani” quelli che più pesano, e vale la pena ascoltare. C’è qualcosa che è andato male nel rapporto tra giustizia, politica e opinione pubblica, e che non può essere migliorato: “Ritengo che in Italia una battaglia per una giustizia più giusta sia impossibile”, dice. “Anche per il fatto che il garantismo è stato rovinato dagli impuniti”. E questo, diciamolo, è un argomento sensibile. Ma non crede che oggi, ad esempio nell’agenda del governo, il tema della riforma della Giustizia sia invece presente, e forse è la volta buona? “Sono scettico”, risponde. “Ma non tanto sulle motivazioni individuali, che non discuto. Quanto su un’impossibilità che deriva dal carattere degli italiani – come lo hanno raccontato Manzoni, o Leopardi – un fiume carsico di sfiducia nello stato e nelle istituzioni che riemerge sempre, come adesso sta riemergendo. E si manifesta in un populismo giustizialista, risentito”. Un atteggiamento che deborda nei media, diventa slogan politico. La gente vuole il colpevole, loro glielo danno.
Nel Mugello, bisogna avere la memoria lunga. Nel 1997 Giuliano Ferrara venne da queste parti a sfidare, contro ogni speranza di vittoria, Tonino Di Pietro, che il Pds-Ulivo di Massimo D’Alema aveva sciaguratamente candidato, pensando di sfruttare e inglobare la forza d’urto del sommovimento giustizialista che l’ex pm incarnava. Lei era sindaco di Barberino, allora… “E fui dipietrista, sì. E me ne sono pentito. La verità è che cademmo nell’illusione dalemiana di poter ingabbiare quel che Di Pietro rappresentava. Ma ci illudemmo, e invece avremmo dovuto riflettere sul fatto che il nostro elettorato – e io da queste parti lo conoscevo bene – si entusiasmava proprio per il Robin Hood, per il suo atteggiamento. Il Pci aveva sempre avuto un’anima garantista, a suo modo. Invece allora stava riemergendo, anche nella sinistra, quel fiume carsico del populismo, del giustizialismo, del qualunquismo E anche il partito ne fu travolto”. E adesso? “Adesso questa situazione permane, anzi è incancrenita anche da anni di cattivo uso del garantismo. Ma fa parte del carattere italiano, non credo sia modificabile. Ed è collegato alla debolezza della classe dirigente. Prenda i reati dei colletti bianchi, insomma quelli legati anche alla politica e all’amministrazione: non possono essere affrontati e gestiti con un misto di risentimento sociale e giustizialismo come invece viene fatto. Così si fa solo in modo che anche i migliori elementi della classe dirigente finiscano alla gogna. La si peggiora e basta”. Sei anni, e poi è meglio infornare torte.


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