La giustizia di Gip e Giop

Giuseppe Sottile
Ricordate come cadevano le teste ai tempi di Tangentopoli? Ricordate con quale ritmo e con quanta alterigia i pm ammanettavano corrotti e corruttori, mafiosi e fiancheggiatori?

Ricordate come cadevano le teste ai tempi di Tangentopoli? Ricordate con quale ritmo e con quanta alterigia i pm ammanettavano corrotti e corruttori, mafiosi e fiancheggiatori? Ricordate con quanto cinismo e con quale clamore sputtanavano uomini politici e ladri di passo, traffichini e ruffiani, colpevoli e innocenti?

 

Erano i giorni della rivoluzione e del furore giacobino, delle tricoteuses in delirio e delle monetine lanciate in faccia a Bettino Craxi. Ed erano soprattutto gli anni in cui l’immensa folla dei forcaioli non vedeva altro dio se non la procura della Repubblica. Sì, quell’ufficio situato al secondo piano del Palazzo di giustizia di Milano dove accanto a Saverio Borrelli si stringevano le nuove divinità della giustizia sommaria: da Antonio Di Pietro a Gherardo Colombo, da Gerardo D’Ambrosio a Piercamillo Davigo. Tutti bravissimi e preparatissimi. Tutti zelanti, onnipotenti e soprattutto intoccabili. Del resto, chi avrebbe mai potuto toccarli? Quale giudice avrebbe mai trovato il coraggio di contestare un ordine di cattura se, a quel tempo, bastava un avvertimento lanciato a mezzo stampa dal potentissimo pool per mandare all’aria un decreto sulla carcerazione preventiva appena varato dal governo?

 

Eppure il codice Vassalli, quello entrato in vigore nell’Ottantanove, per arginare e controbilanciare i larghi poteri assegnati alle procure, aveva istituito in ogni tribunale l’ufficio del Giudice per le indagini preliminari, meglio conosciuto come Gip. Un ufficio di garanzia il cui compito principale è quello di verificare se il magistrato inquirente svolge con equilibrio e serenità il proprio lavoro e se nel fascicolo vengono inserite anche e soprattutto le prove a favore dell’indagato. Una garanzia formalmente ineccepibile, tanto è vero che il Pubblico ministero non può privare della libertà una persona: deve chiedere l’arresto al Gip che, teoricamente, lo firma solo dopo avere valutato tutti gli elementi messi insieme dall’accusa.

 

Prima domanda: quanti procuratori dei tanti che hanno costellato con le loro iniziative quei giorni tremendi hanno avvertito il pugno fermo del cosiddetto potere di controllo?

 

Se qualcuno volesse scavalcare le miserie della cronaca giudiziaria per confrontarsi con gli insegnamenti della Grande Storia potrebbe rileggersi il “Journal d’un bourgeois de Paris sous la Révolution”, scritto a partire dal gennaio 1793, anno del Terrore, dal cittadino Célestin Guittard, 67 anni, residente a Parigi in place Saint-Sulpice. Il quale, da bravo possidente terriero, annota ogni giorno se c’è un bel sole o se piove. Poi elenca gli ospiti che ha invitato a pranzo e, nelle ultime righe, descrive anche i fatti e i fastidi della Rivoluzione: i proclami, i processi, le rivolte, le teste tagliate.

 

Alle dieci e venti del 21 gennaio, quando in piazza viene ghigliottinato il re, Guittard non batte ciglio: si limita a dire che fa freddo e che il termometro segna tre gradi. Nel marzo del 1794 assiste all’esecuzione di Hébert e di altri diciannove cospiratori ma non perde occasione per salutare la nuova primavera. Da vero bourgeois vede soltanto quelli che cadono e quelli che restano in piedi. Ma senza esaltazione e senza orrore: l’acqua lo bagna, il vento lo asciuga. “Passerà”, scrive a margine di ogni contabilità di morte. E il giorno dopo ricomincia, magari annotando che “Mr. Genet m’a apporté une culotte de peau noire turque”.

 

Per carità, come si legge alla fine di un film ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Ma quanti Gip, durante la rivoluzione giustizialista degli anni Novanta, se ne sono rimasti nel calduccio dei loro uffici a guardare da lontano le teste che rotolavano nel paniere di tante inchieste nate male e cresciute peggio, magari con l’aggiunta di una testimonianza non proprio cristallina o con il colpo grosso di una confessione estorta a colpi di galera e altre umiliazioni?
Acqua passata, si dirà. Ed è per questo, per non cadere cioè nella trappola del latte versato che è forse più opportuno vedere che cosa sono diventati i Gip ora che le procure, al pari delle quattro stagioni, non sono più quelle di una volta e che i pubblici ministeri con tendenza alla sovra esposizione si contano ormai sulle dita di una mano.

 

I capi degli uffici non lo ammetteranno mai ma, da Milano a Palermo, da Napoli a Firenze, i magistrati più avveduti non hanno difficoltà ad ammettere che le procure, soprattutto negli ultimi dieci anni, si sono molto indebolite. Sostanzialmente per due motivi. Primo: perché è intervenuto un logoramento naturale: basti pensare ad Antonio Di Pietro e alla sua parabola  politica; oppure alla caduta di Antonio Ingroia, il fantasioso procuratore aggiunto di Palermo che  appena due anni fa voleva alzare l’Italia con un dito ed è finito accucciato in un posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal suo fraternissimo  amico Rosario Crocetta, governatore della Sicilia. Secondo motivo: perché le procure giacobine, durante la loro folgorante e spesso sbracata rivoluzione, ne hanno combinate di cotte e di crude, fino a ingrottare nella mente stessa di quelli che pure avevano agitato il cappio, il dubbio dell’abuso, delle forzature, delle regole che si allentano e si restringono secondo l’interesse o l’opportunità del momento.

 

Obiettivamente, poteva scattare la controrivoluzione. O, più semplicemente, una sana restaurazione del diritto. Ma la debolezza delle procure non ha restituito centralità ai Gip. Anzi, in molti casi li ha disorientati fino alle incongruenze più appariscenti, fino alle polemiche spesso talmente ruvide da rasentare la rissa.

 

Due esempi: uno lo prendiamo da Palermo, l’altro da Catania. Prima di andare in Corte d’assise, dove si trascina a fatica da quasi tre anni, il processo sulla fantomatica Trattativa imbastito da Ingroia e poi lasciato in eredità a Nino Di Matteo, è passato al vaglio di un Gip molto autorevole, Piergiorgio Morosini, che per assurdo poteva rimandare tutti quei faldoni al mittente ma preferì accordare ai baldanzosi inquirenti, così amati in quel tempo dallo star system di giornali e televisioni, un minimo di fiducia. E decise per il rinvio a giudizio.

 

Tutto normale, si dirà. Perché sullo sfondo si intravedono princìpi sacrosanti, come la dialettica tra le parti e il libero convincimento del giudice. E invece no. Perché nella stanza accanto a quella di  Morosini, un altro Gip, Marina Petruzzella, si è trovato dopo qualche mese a dovere giudicare la stessa Trattativa. Lo ha fatto perché uno dei nove imputati, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ha chiesto il rito abbreviato. Ma dopo avere soppesato e valutato, per quasi due anni, le carte che erano passate dalle mani di Morosini la dottoressa Petruzzella è giunta alla conclusione opposta: della Trattativa c’è solo fumo e niente arrosto. Da qui l’assoluzione di Mannino per non avere commesso il fatto.

 

Più complicato e più legnoso l’esempio di Catania. Qui galleggiava da anni un’inchiesta per concorso esterno contro Mario Ciancio, ricco editore del quotidiano La Sicilia e bersaglio preferito di tutte le antimafie riunite. Nel 2012 la procura, stretta dai termini di legge, chiude la fase dei preliminari e chiede l’archiviazione. Ma il Gip non ci sta e chiede un approfondimento delle indagini. La procura acconsente e dopo due anni riporta il fascicolo nelle mani del capo dell’ufficio, Nunzio Sarpietro che assegna la palla alla collega Gaetana Bernabò Distefano. La quale, però, decide a sorpresa per l’archiviazione di Ciancio e per una batosta senza precedenti al fumosissimo reato del concorso esterno: per definirlo serve una legge che ancora non c’è, scrive il Gip, in un sussulto di rivolta contro la banalità e il luogo comune.

 

[**Video_box_2**] Apriti cielo. Le mura del Palazzo di giustizia cominciano a tremare e la polemica si arroventa. Sarpietro non incassa e rilancia: “La negazione del reato di concorso esterno”, dice, “è una decisione del tutto personale e isolata della dottoressa Bernabò Distefano, poiché tutti gli altri giudici della sezione ritengono il suddetto reato ipotizzabile”. Riapriti cielo. Insorgono le Camere penali che invocano interventi drastici di Csm e Associazione nazionale magistrati: dove è finita, si chiedono, l’autonomia del giudice, chi garantirà da oggi in poi la sua libertà? Peccato. La rivoluzione è morta e la controrivoluzione non si sente neppure tanto bene.

 

Il diario di Célestin Guittard – lo ricordiamo per non perdere il filo della narrazione – si chiude nel dicembre del 1795. Il bilancio del Terrore è disastroso, la retorica dei puri non lo incanta più. Avverte nella testa solo un rumore, come un gran vento che soffia tra gli alberi senza foglie. “Tous le beaux discours ne flattent plus l’oreille”.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.