Quell'omicidio a Roma per “vedere l'effetto che fa” strapparsi l'anima di dosso

Umberto Silva

Se non la titanica pretesa di un godimento senza se e senza ma, cosa può avere spinto negli inferi i due ragazzi romani? La droga, okey. La droga stimola, aiuta e benedice i macelli, ma non basta, qualcosa d’altro ha scatenato i due.

Circeo, 29 settembre 1975, notte sadica di rara ferocia, organizzata da gente sicura di cavarsela, poco a che fare con i due ragazzi assassini di questi giorni: consumato il delitto, si sono disciolti nel nulla addormentandosi accanto al morto. E allora, se non la titanica pretesa di un godimento senza se e senza ma, cosa può avere spinto negli inferi i due ragazzi romani? La droga, okey, molta droga profumatamente pagata. La s’invoca ad attenuante, ma quella coca che tutto assolve è in realtà un’aggravante, e finalmente il governo ha preso provvedimenti contro i drogati e gli alcolisti che si divertono ad ammazzare i passanti. La droga stimola, aiuta e benedice i macelli, ma non basta, qualcosa d’altro ha scatenato i due.

 

Rilasciano la sensazione che a un certo punto si siano stancati di avere un’anima e se la siano strappata di dosso, ansiosi di – parole di uno di loro – “vedere che effetto fa”, che effetto fa uccidere e veder morire, se stessi innanzitutto: la morte dell’anima. Si sono eccitati e incoraggiati l’un l’altro, da soli non ce l’avrebbero fatta: è la strafottente amicizia tra uomini a permettere certe azioni. Come quando vanno in gruppo a stuprare le ragazze – che poco contano, anche se qualche strillo angosciato fa ridere gli aguzzini – ma assai più per mostrare al proprio compagno di porcate com’è possibile non fermarsi davanti a niente.

 

I due insaziabili avranno scrutato la loro vittima nei suoi spasmi, l’avranno fiutata, sniffata, goduta. Tutto qui?, infine si saranno detti, perplessi. Hanno fatto a pezzi la loro preda per farsi a loro volta a pezzi, sadici e masochisti insieme, ma anche un tantino romantici nell’aprire la scena del delitto: uno di loro scriverà in una lettera di addio di avere sempre voluto essere donna, e che i genitori glielo hanno impedito. Chi veramente costui ha ucciso e inciso sulla pelle del ragazzo? L’uomo che non voleva essere, la donna impossibile o… Gli psichiatri ci diranno.

 

Molti psicoanalisti in questi giorni parlano dei due in preda a un delirio di onnipotenza, di un loro sentirsi Dio; io opterei per la pulsione di morte, l’autodisintegrazione. Ogni sevizia fatta alla loro vittima sembra un passo verso il nulla, un luttuoso esperimento: non più sentirsi, non vivere, nemmeno essere stati, nati, soprattutto se tocca essere uomo invece che la donna agognata. Niente deve disturbare il loro inabissarsi, sicché i due tagliano la gola alla vittima sacrificale, che la sua parola potrebbe risultare insostenibile oltre che pericolosa; la parola di un morituro è sacra, rischia di stamparsi nelle loro teste per tutta la vita, addirittura rischia di impietosirli, e allora via le corde vocali, le sue ma anche le loro, il mutacismo trionfi, non c’è niente da dire, tutto è stato detto fin dalla nascita – si sforzano di pensare, vogliono assolutamente credere – anzi, fin dall’origine dei tempi, e sicuramente erano parole senza scampo. Rita Dalla Chiesa chiede la pena di morte, ma sono già morti, non farebbe loro né caldo né freddo. Schizofrenia paranoide? Diranno gli esperti che li esamineranno, ma certo, sia ben chiaro, la pazzia non sottrae dalla responsabilità e dalla pena.

 

“Luca ha tanto sofferto”, dice uno degli assassini, pacatamente, una constatazione, un po’ invidiosa forse, come se dicesse: “Lui ha sofferto quel che noi non possiamo”. Non devono preoccuparsi, grazie alla prigione anche loro avranno l’occasione di soffrire: se s’impegneranno a fondo, se ogni giorno e ogni notte saranno dedicate alla redenzione, prima o poi incontreranno il dolore; non l’orribile tortura inflitta allo sfortunato ragazzo ma quel prezioso dolore con cui, forse per la prima volta, avvertiranno il dolce peso dell’anima.

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