Rudy Guede

Negro trovato, colpevole trovato

Redazione

Dal carcere dove sta scontando 16 anni per l’omicidio di Meredith, Rudy Guede parla per la prima volta a Franca Leosini. Ripubblichiamo qui stralci dell’intervista andata in onda nella trasmissione Storie Maledette su Raitre, giovedì 21 gennaio.

 

Ripubblichiamo stralci dell’intervista di Franca Leosini a Rudy Guede andata in onda nella trasmissione Storie Maledette su Raitre, giovedì 21 gennaio


 

 

La conosciamo così Meredith Kercher, icona congelata in quell’immagine replicata all’infinito dai media, dopo che in quella notte di Perugia fra il primo e il due novembre del 2007, notte di Halloween, notte di streghe e di fantasmi, una tempesta di coltellate aveva spezzato il suo tempo senza più stagioni. Aveva 21 anni di garbata bellezza Meredith, e se li portava con la serena baldanza di chi ha una vita tutta da spendere all’insegna di aspirazioni e di valori di sapore antico. Precisa, riservata, riflessiva, assennata nel gestire passioni e pecunia, Meredith appare un delicato ossimoro nel microcosmo studentesco variegato e allegramente trasgressivo che Perugia aveva all’epoca in Amanda Knox la sua esemplare spavalda, seduttiva e disinibita esponente.

 

Inglese di Southwark, storico quartiere di Londra nel sud della capitale. Dalla metà di settembre del 2007 Meredith frequentava all’università di Perugia il corso di italiano per stranieri. Nella villetta al numero 7 di via della Pergola, acquattata lì sotto un rigido ponte e che sembra quasi creata per fare da sfondo a un’oscura follia, l’inglesina c’era andata ad abitare con tre ragazze come lei studentesse in trasferta a Perugia, due italiane e un’americana di Seattle, la 22enne Amanda Knox. Biondo concentrato di esplosiva ustionante sensualità. Da un paio di settimane Amanda amoreggiava con Raffaele Sollecito, 24 anni, pugliese di Giovinazzo, laureando in informatica. Buona famiglia, viso liscio e pulito, qualche spinello di ordinanza, bel ragazzo di quieta eleganza, l’immagine di Raffaele sembra quasi stridere per garbata discrezione con l’irrequieta, ammaliante ragazza di Seattle.

 

Ma è con lei, con Meredith Kercher, e con l’omaggio a questa ragazza d’Inghilterra, unica vera struggente vittima senza domani di questa tragedia, vittima negletta, dimenticata a tratti, perché sepolta dalla fragorosa fascinazione mediatica di altri che hanno occupato da protagonisti ogni spazio della sinistra scena. È con Meredith Kercher, è con il ricordo di lei, che si sente il bisogno di iniziare a ripercorrerla questa storia, senza però il fatidico «C’era una volta», perché c’è e per la prima volta parla l’unica persona che finora mai ha parlato, l’unica persona che per questa tragedia paga per una colpa che disperatamente rifiuta. [...]

 

Senta Rudy, noi in questi anni fra processi, interviste, dichiarazioni e fotografie, su Amanda ci siamo fatti una grande abbuffata. Di Amanda conosciamo fin troppo: la sua collezione di magliette, i suoi tagli di capelli, le sue smorfiette, i suoi lacrimoni... Di Meredith, la grande protagonista assente di questa vicenda, conosciamo solo le poche immagini di quel sorriso che non ha più stagioni. Lei Rudy, che invece Meredith l’ha conosciuta, sia pure superficialmente, riesce a descriverla questa ragazza, riesce a farne un ritratto? [...]

 

«Posso dirle che era una ragazza alla mano, caratterialmente seria, sapeva il fatto suo, trasmetteva carisma. E forse è quel carisma che mi ha affascinato di lei». [...]

 

Quando quella notte lei entra in casa di Meredith, c’eravate solo voi due o c’erano anche altre persone?

 

«Eravamo solo io e Meredith».

 

Quando si chiude la porta alle vostre spalle, come prosegue la serata, cosa accade fra lei e Meredith?

 

«Entriamo in casa, ci sediamo in salotto, nel salotto-cucina. Io avevo mangiato un kebab piccante, che nel frattempo mi aveva dato un po’ allo stomaco e dunque le chiedo da bere. E lei mi dice “fai con comodo”. Io apro il frigorifero e bevo un succo. Nel frattempo Meredith si indirizza verso la sua stanza, la camera da letto. Dopodiché se ne riviene lamentandosi e inveisce contro la Knox. Al che le dico: “Che è successo?”, e lei mi dice che ce l’aveva con la Knox perché, dice, che le aveva rubato dei soldi, che non pulisce, che è sporca. Cerco di tranquillizzarla, cerco di farla ragionare. [...] Si calma, si tranquillizza e sempre nel salotto-cucina accade quello che noi giovani chiamiamo good mood, ossia questo atto di avvicinamento che ci può essere tra due persone. E, niente, come posso dirle?».

 

In termini espliciti, senza problemi.

 

«Ci avviciniamo, non c’è nessun rapporto sessuale, a differenza di quello che è uscito in questi anni, e c’è una sorta di petting, mi scuso per il termine».

 

Non ce ne sono altri. Sono i preliminari di un rapporto sessuale, diciamo.

 

«Sì, al che Meredith mi dice in inglese questa frase: “Do you’ve condom?”, ce l’ha il preservativo? Io dico di no, anche lei dice “non ce l’ho”, e come qualsiasi ragazzo che ha avuto storie precedenti con altre ragazze mi rendo conto che non è il caso di andare avanti e la cosa si interrompe lì».

 

Mi scusi tanto, ma andando a casa di Meredith per un appuntamento si suppone che lei non pensasse di parlare di filosofia.
«Sicuramente».

 

E come mai allora non si è portato il preservativo? Che poi sono oggettini che in generale si portano i maschietti. Quindi Rudy salta il meglio della serata, insomma? Parafrasando il titolo di un grande film, niente sesso siamo inglesi. Comunque andiamo per sequenze. Cosa succede dopo questa imprevista interruzione?

 

«Dopodiché ci rivestiamo e dopo un po’ di tempo ho necessità di andare in bagno».

 

Lei ha parlato di un kebab che le aveva fatto male. Mettiamo in chiaro questa cosa. La necessità di andare in bagno deriva da questo, almeno così ha detto nel processo. Allora ci spieghi bene, perché questo qui è un momento topico. Lei è andato in bagno, in quale bagno è andato? [...]

 

«È stata la stessa Meredith a indicarmi il bagno grande, ossia il bagno più vicino al salotto-cucina».

 

Che è il bagno lontano dalla camera di Meredith. Ora, Rudy, nel suo ricordo, quanti minuti passa in bagno?

 

«Guardi, il minuto glielo so dire perché quando sono entrato nel bagno... Ora, questa cosa va chiarita: sono una persona molto igienica e quindi ho l’abitudine di porre la carta igienica sul water. Mentre faccio quest’operazione sento suonare il campanello. Meredith apre, ne nasce un diverbio, e lì riconosco la voce di Amanda Knox che è entrata in casa. Ora, a sentire il dibattito, il diverbio che nasce fra le due, sapendo che Meredith in precedenza si era lamentata contro Amanda Knox per via dei soldi, per il fatto che comunque era disordinata e sporca, io non mi preoccupo più di tanto e me ne sto in bagno. Perché mai avrei immaginato che da una litigata fra due ragazze chissà cosa sarebbe nato».

 

Quindi Amanda è in casa in quel momento?

 

«Sì, riconosco perfettamente la voce di Amanda Knox».

 

È con certezza che lo dice?

 

«Assolutamente. Al 101 per cento. [...] Comunque, come le ho detto, io continuo a effettuare il bisogno di cui necessitavo ascoltando l’iPod. Sono stato dentro il bagno, perché poi me la sono presa proprio comoda, all’incirca per un periodo di dieci-undici minuti. Dico questo perché ho ascoltato tre brani. Di cui due totalmente e il terzo fino a metà. Dopodiché ho sentito un urlo più forte del volume della cuffia che avevo all’orecchio – tenga conto che io tendo ad ascoltare la musica a livello altissimo. Ho sentito una voce così straziante... al che mi sono preoccupato e ho cercato... senza neanche tirare lo sciacquone, rivestendomi velocemente... ho cercato di andare a vedere cosa era successo. [...] Mi dirigo attraverso il soggiorno, attraverso il corridoio, e mi indirizzo verso la stanza di Meredith. Davanti alla porta della stanza di Kercher vedo questa sagoma maschile, di schiena. Al che, dallo spavento, dall’agitazione, chiedo: “Ma che è successo?” e sto quasi per toccare questa persona. Questo si gira di scatto e mi viene incontro, io indietreggio e cerco di difendermi, pararmi. Guardi, è stata una cosa talmente fulminea che non ho avuto tempo... Tant’è che io durante l’interrogatorio, anche durante le udienze del processo dirò che i movimenti di questa persona... non so cosa avesse nelle mani... ho detto mi sembrava che avesse un bisturi perché sono stato anche ferito...».

 

[...] Quindi lei si imbatte in questa figura maschile.

 

«Cerca una via di fuga. Non è che facciamo la lotta, che lui mi dà un pugno o io gli do un pugno. È una persona che sentitosi, diciamo, scoperto, cerca una via di fuga. Io indietreggio finché cado nel soggiorno e questa persona se ne esce e dice “andiamo, andiamo”. Questa persona che è uscita ha parlato con un’altra persona, che era la Knox, e le diceva “andiamo che c’è una persona”»...

 

Scusi, vuole ripetere: «Questa persona ha detto...»?

 

«Ha detto alla Knox: “andiamo che c’hanno scoperto” [...] Quando io dico che questa persona riferendosi all’altra, in questo caso alla Knox, diceva “andiamo via, c’è un negro, negro trovato colpevole trovato”... è un mio modo di reinterpretare quel che io avevo udito».

 

Ma lei si era reso conto di quel che era successo?

 

«Quando queste persone vanno via, io sono ancora nel salotto-cucina. Entro nella stanza della Filomena (compagna di casa di Meredith e Amanda, ndc), per guardare fuori dalla finestra e riconosco la Knox che se ne va. Io il Sollecito non lo conoscevo all’epoca, dunque quando fui sentito non ero in grado di dire se quella persona era Sollecito o no. L’unica cosa che sono stato in grado di dire era che la voce, il modo di parlare di questa persona, era tipica del sud. [...] Poi mi dirigo verso la stanza di Meredith. È lì che vedo il corpo per terra, è lì che vedo una copiosità di sangue che le esce dattorno. La prima cosa istintiva che cerco di fare... vado in bagno, nel bagno più vicino alla stanza di Meredith, e prendo un asciugamano. Rientro dentro la stanza e Meredith, mi rendo conto che è ferita al collo e cerco di tamponare la ferita. Però non basta e che faccio? Ritorno dentro il bagno, prendo un altro asciugamano e cerco di ritamponare la ferita».

 

Lei parla della ferita. Dove ce l’aveva questa ferita?

 

«Ce l’aveva al collo. Cerco di tamponarle la ferita ma non ci riesco. [...] Meredith addirittura cerca di dirmi qualcosa, ma questo suono “aff, aff”, che poi io tenterò di scrivere le lettere sul muro...».

 

Col sangue...

 

«Sì, perché avevo le mani insanguinate. [...] E quindi sento questo “aff, aff” e però a un certo punto... un ragazzo di venti anni, trovarsi dinanzi a una situazione del genere, da un momento all’altro... lo choc, la paura ha prevalso su di me, non mi ha più fatto ragionare e ha fatto sì che io uscissi da quella casa. Anni dopo, pensando a questo fatto che mi sono lasciato prendere dalla paura, sento di non aver fatto quello che avrebbe fatto anche un bambino di sei anni: chiamare aiuto, chiamare soccorso. Non essere stato in grado di soccorrere Meredith è una cosa molto dolorosa. Lei si domanderà: perché te ne sei andato via, perché sei scappato? Però in quel frangente tante cose ti vengono in testa: chi ti crederebbe, la parola udita prima “andiamo via c’è qualcuno”... e ciò ha fatto sì che la paura abbia prevalso su di me, ciò ha fatto sì che io non abbia agito nel migliore modo possibile sia per prestare soccorso alla povera Meredith, sia per attirare l’attenzione. Forse non mi avrebbero creduto lo stesso, così come non mi hanno creduto e non mi credono tuttora i giudici. Forse si sarebbe potuto fare di più».

 

No, si sarebbe potuto fare molto, nel solo modo possibile: chiamando i soccorsi. Lei ha detto «sono stato vigliacco» (non lo ha detto, ndc), lei è stato vigliacco. È facile per chi non si trova in circostanze di quel tipo poi dare dei giudizi, e quindi io mi vergogno di avere detto che lei è stato vigliacco, però sostanzialmente è lei che ha detto di se stesso: io sono stato un vigliacco (non lo ha detto, ndc).

 

«Sì [...]».

 


Io devo fare riferimento necessariamente a quelli che sono stati i dubbi, gli interrogativi e anche i convincimenti a lei contrari degli inquirenti. Anzitutto lei ha detto di essersi precipitato dal bagno senza neanche tirarsi su i pantaloni.

 

[**Video_box_2**]«Sì e senza tirare lo sciacquone».

 

Ai giudici è apparso inverosimile che lei, sbattendo contro a questo uomo con il coltello, non sia riuscito a descriverlo in nessun modo. [...] Un altro punto di cui i giudici sono assolutamente convinti che lei abbia mentito è che un evento così tragico, una violenza di quel tipo, si sia verificata in dieci minuti. Così, più che un aggressione sembra un’esecuzione.
«Io non so in che modo avvengano le aggressioni [...]».

 

A proposito dell’uomo con il coltello, lei non ha proprio idea chi fosse quella persona?

 

«Io sono sicuro al 101 per cento che Amanda era presente, perché la conoscevo, ed è la persona con cui Meredith ha iniziato la discussione quando ho sentito suonare alla porta. [...] Dopodiché, per quanto riguarda questa seconda persona, facendo un percorso mentale di quel momento, al 100 per cento non sono in grado di dire chi era a quell’epoca. Però sono passati otto anni e in questi otto anni una mia idea me la sono fatta».

 

Ce la dica.

 

«Non è che la debbo dire io. Perché se andiamo a leggere l’ultima sentenza della Cassazione che si riferisce ai miei presunti corresponsabili, è vero che quella sentenza dice “al di là di ogni ragionevole dubbio”, per via del fatto che gli inquirenti abbiano fatto male il lavoro e per via del fatto di tantissime altre cose, non erano in grado di dire se erano colpevoli. Però quella stessa sentenza, per chi avrà modo di leggerla, parla chiaro: che loro lì, dentro quella casa, c’erano. E questo non lo dico io».
Lei dice loro? Sta usando il plurale.

 

«Sto usando il plurale perché così è scritto dentro la sentenza della Cassazione. [...] Credo che questa sia una cosa da chiarire e da far sapere: sono stato giudicato fino al terzo grado con l’accusa e con la condanna di aver concorso in omicidio e violenza sessuale. E la stessa sentenza dice che Rudy Guede non ha niente a che fare con l’arma del delitto, non è l’autore materiale del delitto, non ha ucciso lui Meredith. È scritto nero su bianco».

 

[...] Quando lei ha lasciato la casa di via della Pergola chi c’era in casa?

 

«Quando io ho lasciato la casa non c’era nessuno, se non che la povera Meredith».

 

Altro punto, quando lei è fuggito, la porta di camera di Meredith era chiusa o era aperta?

 

«Era aperta».

 

Vorrei che con la forza di un fermo immagine lei descrivesse la terribile scena che lei sostiene di avere lasciato. Ecco, nell’inferno di quel sangue, lei Meredith come la ricorda? Era spogliata, vestita? La stanza era in ordine, in disordine?
«Era vestita, indossava i suoi vestiti, i pantaloni di jeans, nella stessa maniera di quando eravamo entrati in casa».
[...] Come lei sa, i giudici che l’hanno condannata non hanno creduto alla descrizione da lei fornita e [sostengono] che lei, insieme a terze persone, abbia preso parte attiva alla violenza sessuale su Meredith, anche se poi non è stato lei a vibrare la coltellata mortale [...]. La scena del delitto poi era completamente diversa da quella da lei descritta. Quindi, o c’era qualcuno in casa quando lei è fuggito, contrariamente da quanto lei ha detto, oppure qualcuno in quella casa è intervenuto successivamente. Qualcuno che aveva interesse che la scena del crimine fosse alterata.

 

«Una cosa è sicura, io non c’ero».

 

Questo è pacifico. Oltretutto l’hanno vista in giro. [...] Intanto la porta della stanza di Meredith lei dice di averla lasciata aperta, invece era chiusa a chiave. Per entrare nella stanza hanno dovuto sfondarla. [...] Ancora, contrariamente a quanto da lei dichiarato, la stanza di Meredith era in assoluto disordine. Il corpo era supino. Aveva un cuscino sotto i glutei. Era coperta da un piumone chiaro che le lasciava intravedere solo il piede sinistro e parte del volto. Meredith non era vestita, come lei aveva dichiarato. Ma aveva indosso una doppia maglia imbrattata di sangue e arrotolata fin sotto il seno. Praticamente era nuda. Una condizione che lasciava ipotizzare un’aggressione a fini sessuali. Poi abbandonati sul pavimento della stanza c’erano i due asciugamani che, come lei ha sostenuto con gli inquirenti e che in questo le hanno creduto, aveva adoperato nel tentativo di tamponare il sangue delle ferite di Meredith. [...] Allora, Rudy, chi sono gli altri?

 

«La sentenza che riguarda la Knox e Sollecito sappiamo come è andata a finire. Però quella stessa sentenza dice che loro all’interno di quella casa c’erano. Dunque io penso che questa domanda andrebbe rivolta a loro».

 

Chiunque sia stato, o siano stati, c’è una sentenza della magistratura e va rispettata.

 

«Si rispetta, ma se si legge nel concreto quella sentenza, soprattutto al punto riferito ad Amanda Knox, i giudici dicono che lei era presente perché lo scrive su un diario, ed ella stessa lo dice. E di conseguenza che il Sollecito non poteva non essere con lei. Questo lo dicono i giudici, non lo dico io». [...]

 

Va detto che Amanda Knox nei suoi processi, il suo nome, Rudy, non l’ha mai fatto. Mai. [...] Comunque, tornando ai fatti, il 16 settembre del 2008 al tribunale di Perugia inizia il processo a suo carico. L’imputazione è di aver partecipato attivamente, in complicità con Amanda Knox e con Raffaele Sollecito, all’aggressione a Meredith Kercher. Un’aggressione finalizzata a una violenza sessuale che, per la disperata resistenza di Meredith, si è poi conclusa in tragedia. Senta Rudy, va bene che allora aveva solo 22 anni, però lei è riuscito a farsi ascoltare da giudici come ha fatto stasera con noi?

 

«Io c’ho provato, avevo vent’anni, ho provato di spiegare, il motivo per cui ero in quella casa, cosa è successo, cosa ho visto, ma evidentemente non ci sono riuscito. L’esito finale è che mi ritrovo a essere condannato in concorso con i cosiddetti autori materiali che stanno fuori».

 

«Che stanno fuori» è una responsabilità che si prende lei, perché per quella sentenza sono innocenti. [...] Comunque, Rudy, malgrado il giudice di primo grado indichi in sentenza, leggo testuale, che lei «si sia accodato a un’iniziativa più o meno organizzata da altri piuttosto che averla elaborata in prima persona» e malgrado precisi che «si potrebbe del resto ipotizzare che Rudy Guede non sapesse nulla del coltello», indicando quindi con chiarezza in sentenza che non è stato lei Rudy a sferrare a Meredith il colpo mortale, il 28 ottobre del 2008 lei viene condannato alla pena dell’ergastolo, con la riduzione a trent’anni di reclusione solo per la scelta del rito abbreviato [...]. Poi il 28 dicembre del 2009 la Corte di assise di appello le riduce la condanna da trenta a sedici anni di reclusione, uno sconto di pena dovuto al fatto che lei all’epoca era incensurato e soprattutto al presupposto che non era stato lei a impugnare il coltello. Il 16 dicembre del 2010 la Cassazione conferma. [...] Dal momento che lei è l’unico a pagare per una condanna che ritiene ingiusta, visto che in Italia esiste un istituto che si chiama revisione del processo, alla luce di quanto detto pensa di ricorrevi?

 

«Io penso che qualsiasi persona che lotta per la propria innocenza ricorra a occhi chiusi alla revisione processuale. Ci mancherebbe che me ne sto con le mani conserte e non colgo questa opportunità.

 

Franca Leosini

 

 

Nota: dopo la messa in onda dell’intervista, Raffaele Sollecito ha fatto sapere che sporgerà querela nei confronti di Rudy Guede. Intanto gli avvocati di Guede hanno rimesso il mandato.