Perché le proposte di legge contro il cyberbullismo sono inutili e dannose

Stefano Epifani
Dire che è colpa di internet e dei social network e sequestrare smartphone e computer vuol dire non avere capito il problema. Il bullismo si combatte con educazione e cultura, non aggiungendo nuove norme ad altre già esistenti.

Tra le tante malattie delle quali soffre il nostro paese quella della superfetazione normativa è senz’altro endemica. Ogni volta che un nuovo fenomeno, un problema insorgente o – più spesso – la nuova faccia di un vecchio problema iniziano a manifestarsi, la prima reazione è sempre quella di correre ai ripari con un disegno di legge, una normativa o almeno un decreto, che non si nega a nessuno.

 

Tuttavia raramente cavalcare la strada normativa (soprattutto se non supportata da altri interventi) rappresenta una reale soluzione. A volte è utile. Spesso è un modo un po’ cialtrone per sperare di risolvere con semplicità problemi complessi, talvolta è un sistema subdolo per lavarsi la coscienza e nel contempo garantirsi qualche titolo di giornale.

 

Nel caso del bullismo non è ancora chiaro in quale delle tre fattispecie ci si troverà anche se – ipotizzando che il buongiorno si veda dal mattino – il rischio di pioggia è forte. Sono più d’una, visto l’interesse che riscuote il tema, le proposte in parallelo. In questi giorni si parla di quella presentata da Micaela Campana, Responsabile Welfare del Partito democratico, ma riemerge anche quella della Senatrice Elena Ferrara, anche lei del Pd. E come sempre succede in questi casi, il rischio di ottenere un minestrone normativo è serio.

 

Tuttavia c’è un elemento che mette d’accordo tutti. Il colpevole: la colpa è di internet e dei social network. Di quella rete brutta e cattiva che, neanche a dirlo, è la causa di tutti i mali. E quindi ecco che il discorso sul bullismo scivola pericolosamente verso quello sul cyberbullismo. Dettaglio non da poco, quando un problema sociale serio ed esteso come quello del bullismo si riduce – una parte per il tutto – a un suo aspetto particolare. Aspetto che senz’altro ridefinisce il problema e ne determina nuove dinamiche, ma che non può esser visto – nella sua dimensione strumentale – come il principale (se non unico) elemento di rilievo. Nè tantomeno come l’origine del problema.

 

In altre parole, se pensare a una legge contro il bullismo può anche essere sensato, ragionare in termini di cyberbullismo non solo è privo di senso, ma è pericolo. E’ pericoloso perchè considerare il mondo fatto di “reale” e “virtuale” e quindi il bullismo costituito da due dimensioni, quella fisica e quella cibernetica, fa perdere di vista la contiguità di due dimensioni la cui gestione non può essere separata e distinta. Lo è perché partire da una visione distorta di una rete dalla quale bisogna difendersi – approccio invero comune in politica, quando si parla di internet – non può che portare a soluzioni fuorvianti. E’ pericoloso perché fa perdere di vista che il bullismo vede nei social network un ulteriore strumento che amplifica un fenomeno la cui origine, però, è altrove. Il problema del bullismo in rete non è la rete, ma il bullismo. E il bullismo, oggi amplificato da strumenti diversi e senz’altro più potenti, non lo si combatte agendo sugli strumenti, come si paventa di fare con il sequestro degli smartphone o dei PC di cui si parla.

 

[**Video_box_2**]Combattere il bullismo vuol dire sviluppare un’azione culturale che agisca a tutti i livelli del problema. Vuol dire educare e rieducare i bulli sensibilizzandoli sui possibili esiti delle loro azioni. Colpendoli e punendoli, ove necessario, con leggi che già ci sono. Vuol dire educare le vittime a un uso consapevole della rete e dei social network, che non vanno temuti ma conosciuti: nelle opportunità che offrono come nelle minacce che celano. E vuol dire – soprattutto – educare le famiglie e gli insegnanti, veri anelli deboli di questa catena, che fanno sempre più fatica a comprendere le dinamiche degli strumenti utilizzati dai loro ragazzi. Nelle proposte di legge in discussione, indipendentemente dagli spunti che pure talvolta offrono, lo spettro di una rete vista come nemica incombe.

 

Ubi societas ibi ius, insegnano i giuristi. Quello che però tutti dovremmo ricordare è che, prima di legiferare su alcuni fenomeni della società, dovremmo preoccuparci di capirli davvero. Per affrontarli.