Il premier Matteo Renzi al Italian Digital Day alla Reggia di Venaria (LaPresse)

Caro governo, non basta parlare di innovazione per innovare davvero

Stefano Epifani
Che l’Italia sia nelle ultime posizioni delle classifiche europee quando si parla di digitale non è una novità. Venticinquesima nell’Europa a 28 secondo il Digital Economy and Society Index, indice che confronta le performance dei diversi stati membri. Posizione che occupa stabilmente con un lieve calo nell’ultimo anno, peraltro. Peggio di noi solo Grecia, Bulgaria e Romania.

Che l’Italia sia nelle ultime posizioni delle classifiche europee quando si parla di digitale non è una novità. Venticinquesima nell’Europa a 28 secondo il Digital Economy and Society Index, indice che confronta le performance dei diversi stati membri. Posizione che occupa stabilmente con un lieve calo nell’ultimo anno, peraltro. Peggio di noi solo Grecia, Bulgaria e Romania.
Non è certo facile, in questo contesto, celebrare il digitale italiano. Ma è ciò che si è cercato di fare durante il primo Italian Digital Day, che si è concluso sabato in Piemonte con la presenza del presidente del Consiglio Matteo Renzi e di diversi esponenti del governo. Un governo, va detto, che più di altri ha esaltato il ruolo dell’innovazione. Ma quanto a un governo che parla di innovazione corrisponde un’effettiva capacità di governo dell’innovazione? Sono anni, ormai, che di innovazione si parla in cabine di regia, piani più o meno strategici, convegni. Tuttavia a un piano strategico ne segue un altro, e a esso un altro ancora. E’ di ormai oltre sei mesi fa la pubblicazione dell’ennesima strategia per la crescita digitale, e da allora – anche a causa di una delle governance più complesse della burocrazia italiana – quasi nulla è stato fatto. Salvo promettere un ennesimo fantomatico piano in 100 punti. Perché si sa, l’effetto annuncio funziona sempre. Ciò che è evidente è la grande fatica di una macchina pubblica che in qualche modo si sta rendendo conto, benché in ritardo, che non si può prescindere dal digitale, ma che ancora non è stata in grado di comprendere davvero come coglierne quelle opportunità che, mancate, rischiano di trasformarsi in minacce. Prova ne sia che mentre si parla tanto di innovazione, la legge di Stabilità propone un taglio del 50 per cento ai “costi” generati dall’information technology nella Pa. Insomma: invece che investire sul digitale lo si considera un costo. E così se da una parte si fatica a comprendere davvero come gestire la trasformazione digitale, dall’altra se ne sviluppa la narrazione.

 

La si sviluppa con tale enfasi, e in questo Matteo Renzi è maestro, che la dimensione narrativa dell’innovazione rispetto ai fatti è diventata prevalente. Il centro dell’azione si  è spostato dall’operatività e dal progetto al racconto. Poco importa se la sostanza si discosti dalla realtà, purché vi sia la storia. Una storia affidata al Digital Champion italiano. Quella del Digital Champion è una carica europea voluta dall’ex presidente della Commissione europe José Manuel Barroso. Ogni paese membro dell’Ue ha un Digital Champion nominato con l’obiettivo di supportare il processo di digital transformation del paese. In Italia questo compito è stato assegnato da Matteo Renzi a Riccardo Luna, che per creare una rete di supporto alla sua azione ha fondato un’associazione – Digital Champions (con la esse finale) – fatta di volontari. Una rete territoriale che avrebbe dovuto esprimere un associato per ogni comune italiano (a oggi il risultato è lontano: sono poco più di 1.500 i membri registrati) e  attraverso i suoi associati facilitare il percorso di cambiamento. Dal punto di vista dello storytelling una macchina perfetta, quella realizzata da Luna: giocando sull’equivoco generato dal plurale inglese di Champion, per il quale una figura istituzionale genera un’associazione privata e quest’associazione si muove sul territorio come se fosse una struttura istituzionale, ha ottenuto due effetti. In primo luogo quello di abbattere il livello di critica sull’operato del governo. Molti degli esperti che potrebbero criticarlo sono nell’associazione, e non è un caso, ad esempio, che l’esternazione di Renzi fatta proprio a Venaria sul controllo a tappeto della popolazione per combattere il terrorismo non abbia suscitato reazioni immediate da parte di quegli attivisti che ora sono anche membri della associazione di Luna.

 

[**Video_box_2**]Una narrazione collettiva dell’innovazione che diventa innovazione di regime, capace di marginalizzare chi dissente e sfruttare l’impegno e la buona volontà (o l’opportunismo – a seconda dei casi) di chi ne prende parte. In secondo luogo, ed è il rischio più grande, quello di dare una visione distorta, semplificata e semplicistica dei temi messi in gioco. Perdere di vista le reali priorità e, presi dal fascino della storia, non cogliere più i problemi nella loro dimensione effettiva. Non v’è dubbio che il Digital Champion sia un grande narratore del cambiamento. Ora però serve la storia da narrare.

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