Il presidente iraniano Hassan Rohani passa in rassegna una parata militare (foto LaPresse)

Gli arresti all'ombra del deal

Tatiana Boutourline
In Iran la repressione morde sempre di più. Poeti, giornalisti e anche businessmen sono nel mirino.

Sull’ultima copertina di Time c’è una bella ragazza con uno smartphone in mano e il titolo è “Iran 2025 how its next decade will change the world” (Iran 2025 come la sua prossima decade cambierà il mondo) ed è l’immagine che vorremmo dell’Iran post deal, un paese “normalizzato”, in cui fare vacanze esotiche e costruire stabili relazioni d’affari, un Iran che non fa più paura perché ha il volto pulito di una giovane donna che magari sogna di creare una startup. Con la firma dell’accordo nucleare si apre un mondo nuovo che Hassan Rohani e Javad Zarif – ciascuno con il suo stile, al presidente la gravitas, al ministro degli Esteri l’affabilità – profetizzano dall’inizio del negoziato, è la visione con cui Rohani ha sedotto gli investitori internazionali alla sua prima apparizione al forum di Davos, la stessa che illustrerà nel corso della sua imminente visita in Italia e in Francia, la prima da dieci anni a questa parte di un presidente iraniano in Europa. E’ una narrazione convincente e tutto lascia supporre che l’ennesima offensiva dello charme iraniano riscuoterà ulteriori consensi.

 

“L’Iran è un paese dalle potenzialità inesplorate”, ha detto Rohani con fare suadente nel 2014 a Davos e il mondo degli affari è d’accordo con lui. Due giorni fa la Farnesina ha organizzato un incontro per illustrare come si articolerà la revoca delle sanzioni, la sala era gremita e la platea preparatissima su tutti protocolli e gli allegati dell’accordo. Nessuno sa quando arriverà l’implementation day, il D-Day del deal, (secondo un dispaccio Reuters lo smantellamento delle centrifughe nelle centrali di Natanz e Fordow è stato interrotto, il che suggerisce che il processo potrebbe serbare altre soprese), ma la corsa all’oro iraniano è già partita e nessuno vuole rimanere indietro e perdersi una fetta della torta.

 

Il problema è che il deal versione Rohani non è l’unico deal in campo, perché ogni giocatore porta avanti la sua interpretazione e la sua narrazione e, se per l’occidente si tratta di partire senza sensi di colpa alla conquista di un mercato troppo interessante per rimanere problematico, per i falchi di Teheran, invece, il deal rappresenta solo la fine del regime sanzionatorio, le linee rosse non si sono spostate e l’Iran non cambierà volto. Non esiste alcuna terza via alla Rohani dichiarano i pasdaran con la loro ultima ondata di arresti, se lui vi ha promesso un mondo di startup e canzoni vi ha ingannato, l’ideologia non arretra, voi siete fessi e la repressione pareggerà i conti tra le aspettative e la realtà. Dalla firma dell’accordo il 14 luglio, Ali Khamenei ha parlato cinque volte del rischio che i nemici dell’Iran e gli americani in particolare sfruttino il deal per ristabilire la loro influenza nel paese. La Guida Suprema ha anche evocato lo spauracchio degli “infiltrati” e la stampa al servizio dei falchi ha subito preso nota e ha annunciato la scoperta di “network” di spie e facilitatori al soldo dei servizi di intelligence occidentali. Negli ultimi dieci anni l’apparato di sicurezza non solo è cresciuto ma si è frammentato. Fazioni della magistratura, delle Guardie rivoluzionarie, agenzie governative, fondazioni, tutti hanno informatori e dissuasori con obiettivi diversi e contrastanti che agiscono impunemente. Da due mesi si moltiplicano gli arresti e liste di proscrizione del regime vero e verosimili rimbalzano dal Parlamento ai servizi di sicurezza e poi filtrano come avvertimenti sui quotidiani.

 

Ali Shamkhani, segretario del Consiglio per la Sicurezza nazionale con un passato poco moderato temperato in questi anni dal sodalizio con il team Rohani, ha detto che le incarcerazioni sono una vendetta contro il presidente (le legislative sono alle porte e i falchi vogliono evitare che un trionfo dia a Rohani o a Javad Zarif la volata per le prossime presidenziali), ma la spiegazione non consola i “facilitatori”, poeti, giornalisti e uomini d’affari finiti a far da pedine in una partita più grande di loro. Rohani ha criticato gli arresti con un discorso dall’asprezza inconsueta ma i suoi rivali sono riusciti comunque a dimostrare la sua debolezza, il presidente non si era presentato agli iraniani come un campione dei diritti umani, ma si era annoverato come un garante dello stato di diritto che avrebbe moderato l’arbitrarietà della vita in Iran. Il simbolo della sua campagna elettorale nel 2013 era una chiave, eppure le porte della prigione di Evin seguitano ad aprirsi in entrata piuttosto che in uscita e Rohani non riesce nemmeno a proteggere i suoi supporter. Gli “infiltrati” appartengono a due categorie: le minacce culturali – poeti, attori, intellettuali, giornalisti – e le minacce economiche ossia i facilitatori occidentali.

 

Durante il suo ultimo viaggio a New York per partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Rohani ha incontrato ceo di società americane ed esponenti della diaspora iraniana negli Stati Uniti. Secondo il Wall Street Journal durante uno di questi incontri fu chiesto al presidente iraniano se avrebbe potuto garantire la sicurezza dei businessman iraniani-americani anche in patria. Il presidente li rincuorò dicendo che l’Iran è un paese sicuro, in fondo milioni di iraniani vanno e vengono e solo poche persone vengono arrestate. Così nel dilemma tra scegliere di non investire nel deal finché tutti i problemi non fossero stati risolti e provarci un passo alla volta, molti iraniani-americani ci hanno creduto. Ma in Iran anche i piccoli passi possono essere fatali: a metà ottobre è stato arrestato Siamak Namazi, manager dell’ufficio strategico della Crescent Oil, da sempre fautore delll’engagement Usa-Iran e ritenuto vicino al clan di Hashemi Rafsanjani, e lungo la schiena degli iraniani-americani sono corsi brividi lunghi perché chiunque di loro è tacciabile di essere un cavallo di Troia del Grande Satana occidentale (ne sa qualcosa Jason Rezaian corrispondente del Washington Post in carcere in Iran da 16 mesi accusato di spionaggio) .

 

[**Video_box_2**]Lo ha raccontato sul New York Times l’ex corrispondente di Time a Teheran Azadeh Moaveni: un supervisore dell’intelligence la convoca per lamentarsi dei suoi articoli in cui descrive iraniani troppo a loro agio con i costumi occidentali. Lei risponde esasperata: “La maggior parte degli americani immagina che l’Iran sia una nazione di sequestratori antisemiti che vivono sotto la sharia. Sapere che qualcuno va anche a sciare, ci fa sembrare più umani”. Poche settimane dopo la reporter del Nyt, Nazila Fathi fu costretta a fare le valigie dalla sera alla mattina avvertita che i cecchini avevano la sua foto ed erano pronti a spararle. Era il 2009 ma nell’Iran pragmatico di Rohani nessuno è ancora al sicuro.